Catemera

tutto quello che scrivo

una cosa al giorno per non perdere l'abitudine

Eravamo due, mio fratello ed io, ma così attaccati da sembrare quasi uno e mezzo. Eravamo piccoli, fragili, lo siamo ancora adesso che siamo adulti. Non vedevamo molti amici e avremo fatto forse cinque feste in tutta la nostra infanzia, ma quando venivano Loro era una gioia. Loro erano i figli di un amico di papà, che ogni tanto, molto raramente, decideva di rompere quella barriera di sociopatia minuziosamente innalzata dai miei genitori e spietatamente resistente anche alla proverbiale, forse sopravvalutata, socievolezza e socialità di mio padre. Come si coniugano i due opposti? Semplice: andando a vivere in un posto ideale, studiato, curato, scelto con pazienza e lontano mille miglia da quei pochi (mia madre) e molti (mio padre) amici rimasti in città. Non gli egoismi, non le mancanze, nessuna incomprensione. Metti una manciata di chilometri extra tra te e il mondo e avrai la garanzia che anche i più tenaci e affezionati vacilleranno. È cominciato tutto così. A detta di tutti mio padre amava circondarsi di persone, aveva facilità ad attaccar bottone e stare in mezzo alla gente e legava con tutti, ma mi sono fatta l’idea che fosse vero solo in parte. Una persona che dopo un po’ comincia a mettere in discussione tutti e giudicare e fare illazioni non può mantenere un rapporto sincero e profondo in piedi, al limite può circondarsi di conoscenti, ed è questo quello che credo sia avvenuto negli anni.
Ad ogni modo, Loro. Adoravo quei due, li adoravamo, parlo sempre di me e di mio fratello. Erano i figli di uno degli amici superstiti di mio padre, che due o tre volte all’anno per un certo periodo superava appunto la barriera e veniva a trovarci in un giorno del fine settimana. La cosa partiva totalmente casualmente, e non ho memoria di pranzi insieme, quindi deve essere sempre accaduto nei pomeriggi. Al sopraggiungere della sera immagino che mia madre abbia proposto di risolvere la cena di noi bambini con dei panini, dei toast, ma non ho alcuna immagine mentale parcheggiata nel cervello.
Quello che è rimasto indelebilmente sono le serate passate in quattro a fare non ho la più pallida idea di cosa, qualche riavvicinamento con gli adulti, a tratti, solo per dire ancora un po’, che voleva dire che dalle 9 si guadagnava tempo fino alle 11, poi fino all’una, spesso anche oltre. Due fratelli piccoli, due grandi, a sessi incrociati: forse avevamo undici e tredici anni le prime volte, quattordici e sedici le ultime.
Odio le feste ma ricordo questi pomeriggi-sere-notti con un piacere, un’allegria e una soddisfazione totali e ineguagliabili. Quei due fratelli erano simpatici, speciali e in più erano perfettamente speculari e complementari a noi due fratelli.
E poi c’era il resto.
Riuscivo perfettamente a sovrapporre i due livelli. Il secondo non era di amicizia. Timido ma spiritoso, battuta pronta sottile che arriva in sordina a rompere lunghe parentesi silenziose, occhialetto da secchione (ma io sapevo che non lo era, non del tutto almeno, perché era brillante ma selettivo). Tra Loro due, Lui mi affascinava, ma apparteneva a un mondo troppo lontano dal mio, la città, un liceo rinomato, una vita quasi adulta molto prima che io potessi anche solo sospettarne l’esistenza. Forse se avesse abitato più vicino, o avessimo condiviso la scuola, avrei pensato un giorno di poterci provare, ma così, con queste visite fugaci e assolutamente imprevedibili, non avrei mai preso in considerazione l’ipotesi di scindere il gruppo in due per rischiare cosa, poi? Di scoprire che nel suo mondo, quel mondo vero che mi sembrava quello di un alieno, aveva una ragazza molto più chic di me, molto più matura di me, e soprattutto molto più a portata di mano di me?
Non mi ero mai posta il problema, non mi era venuto il dubbio, insieme a loro mi sentivo speciale ma insieme a lui mi sentivo goffa e non mi percepivo minimamente attraente.
Avevo l’ossessione delle tette, venivo da una discendenza di donne le cui forme erano limitate al culo e ai fianchi e invidiavo disperatamente tutte le compagne di classe già sviluppate e anche quelle non sviluppate, come si dice, ma comunque con più tette di me.
Mi sentivo invisibile con lui. Sapevo che ci divertivamo in quattro, ma il confronto a due mi metteva in difficoltà, in difetto, come se il totale fosse due ma io fossi meno di uno e lui un po’ di più. Senza, beninteso, per questo evitare di morirgli dietro, di sbirciare i suoi sospiri e il modo in cui si muoveva o scrivere brutte poesie e inutili pagine di diario in cui immaginavo di stare con lui, pur non sapendo di preciso cosa avrei fatto con lui in quel caso.
Per caso finì.
Non ricordo l’ultima volta che ci vennero a trovare, ma si vede che a un certo punto, con il precipitare della nostra situazione familiare, con l’azzeramento del mondo esterno e l’implosione di quello interno, nessuno badò più a cosa stesse facendo mio padre, nemmeno quel conoscente, amico o altro. Oppure ci badò e mio padre rifiutò ogni gesto di amicizia: non posso saperlo.
Passarono anni, la vita di mio padre si concluse, la mia anche per un po’, poi ricominciò, non da zero purtroppo, ma da tre. Mi spiace, Massimo, ma in alcuni casi zero è meglio.
Ne passarono almeno dieci, di anni, in realtà più probabilmente quindici. Mi innamorai, anche se era della persona sbagliata; ma finché la ritengo giusta, non cedo alle tentazioni, non mi faccio irretire dalle lucine colorate e luccicanti.
Loro non esisteva più, Lui a un certo punto riapparve nel malefico congegno degli amici degli amici. Dico che mi contattò lui perché forse mi venne la curiosità di contattarlo e per questo ho deciso di dimenticare il primo incontro, se si può chiamare incontro un mezzo pomeriggio trascorso a chattare.
“Tu sei il grande rimpianto della mia vita.”. Non le mie parole, ma le sue.
Di tutte le ipotesi che mi si erano sovrapposte in testa, sia a sedici che a trent’anni, questa non si era mai palesata. A vederlo su internet, ingrassato, senza più occhiali, piacione, protagonista di tutte quelle classiche foto che si decide di mettere online per (di)mostrare di essere felici e realizzati, in un certo qual modo, ormai, anche meno interessante e brillante di come sembrava promettere a sedici anni, niente mi aveva preparato a questa possibilità.
Si era sposato da poco dopo una lunga convivenza. Mi raccontò tutto ciò che per anni avevo provato io per lui: gli ero simpatica, gli piacevo, era sempre stato silenziosamente attratto da me, forse innamorato, senza riuscire a osare di più. Ma soprattutto, ero stata a lungo il suo sogno erotico irraggiungibile, a maggior ragione considerato che non aveva mai avuto il coraggio di dichiararlo per paura di un rifiuto.
Non poteva rovesciarmi addosso tutto questo ora. Intendo, non avrebbe dovuto, era ingiusto. Anche se il rimpianto in qualche modo era reciproco, anche se ci eravamo resi conto entrambi che ciascuno per anni aveva atteso un segnale dall’altro, senza prendere l’iniziativa.
“Non possiamo vederci una volta, una sola?”. Giusto per vedere che effetto fa, diceva.
Sono stata tentata, ma me lo sono tenuto per me. A lui ho risposto semplicemente che ormai, a carte scoperte, sapevamo tutti e due “che effetto avrebbe fatto” e anche se mi pesava non aver capito nulla dei suoi sentimenti, all’epoca, volevo far funzionare la mia relazione e questo includeva decidere, anche se con uno sforzo razionale, di rifiutare le tentazioni.
Ci riprovò random, nei mesi successivi, quasi dimenticandosi il mio nome e chiamandomi solo Rimpianto, ma io mi ritraevo precisando che non trovavo onesto da parte sua esplicitare il rimpianto, soprattutto ora che era sposato, a suo dire, felicemente. D’accordo dichiararlo, svelarlo, forse, approfittare del tempo per uscire allo scoperto: ma solo se la questione si chiude nello stesso istante, solo se la dichiarazione automaticamente archivia ogni cosa. Ammetterlo era stato umano e comprensibile, reiterarlo era sondare il terreno e non mi piaceva più far parte di quel gioco che sperava di vincere, che sapeva che sarebbe stato facile vincere se solo io avessi avuto meno scrupoli. “Mia moglie la amo, ma tu sei il grande Rimpianto della mia vita”.
Qualche anno fa, tornando a prendere scatole di carte e oggetti conservati a casa di mamma, sono spuntati dei vecchi blocchi di appunti in cui avevo infilato, a mo’ di segnalibro, ritagli e cartuscelle che avevo deciso di catalogare come ricordi. In fondo a un blocco spuntò uno di quei rotoli accartocciati usati per il gioco della scrittura collettiva, quello in cui ci si passa i foglietti per aggiungere parole e frasi, senza sapere cosa venga prima e se funzionerà.
Riconobbi la mia grafia, mi presi del tempo per identificare le altre: la sua venne fuori per esclusione, posizionata in ogni foglietto, dopo la mia, nel turno dei passaggi. Con tratti incerti e scrittura un po’ nervosa: se un tempo ero mai stata in grado di leggerla, e molto probabilmente sarà anche per avere qualcosa di suo che avrò conservato i foglietti, ora mi sembrava tutto incomprensibile.

 

Catemera, 26/05/2021 - 08:31

Il prossimo libro vorrei sempre che fosse bello quanto il peccato originale. Vorrei non aver letto libri così belli da farmi venire voglia di rileggerli, perché rendono difficile trovare nuovi libri all'altezza. E poi non riesco a leggere libri nuovi, libri che non sono mai passati per altri occhi o altre mani. Sulle bancarelle di libri usati apro i libri solo per cercare segni di passaggio umano, di appunti. Stamattina ho aperto uno dei miei prossimi libri e dopo due pagine ho dovuto girarlo in cerca di qualcosa: la sabbia dimenticata tra le prime pagine non era bastata a soddisfare la mia curiosità. E infatti nell'ultima pagina ho trovato gli appunti a penna di una vacanza in Turchia. Nomi e date che giustificavano i granelli di sabbia.
Ma non l'ho scelto come compagno per le mie ore di roccia. Ho avuto bisogno di rileggere qualcosa che sorprendentemente avevo letto solo una volta, amato e quasi colpevolmente dimenticato. Uno schizzo improvviso di acqua causato dal passaggio di una barca ha segnato la copertina per chi verrà dopo di me.
Ma il mare ha continuato a incazzarsi anche dopo, pur senza essere un'incazzatura vera: più uno sbottare momentaneo col sorriso incerto. Mi stai chiamando? Stai cercando di convincermi? Eccomi.

Catemera, 30/06/2020 - 09:37

Se avessi avuto vent’anni di più, forse, le avrei potuto spiegare che non c’è nulla di così terribile, che alla fine di quella che chiamiamo “la vita sessuale” l’unico amore duraturo è l’amore che ha accettato tutto, ogni delusione, ogni insuccesso e ogni tradimento, che ha accettato anche il triste fatto che alla fine non vi è altro desiderio tanto profondo quanto il semplice desiderio della compagnia.

[Graham Greene, “Ci presti tuo marito?”]

- Buonanotte, papi, vado in camera mia.
- Buonanotte amore.
- Dopo vieni a darmi un bacio?
- Certo.
Non ha quattro anni e nemmeno nove ma sedici eppure non rinuncia ancora a quest’appendice della sera, quest’anticipazione della notte che deve venire annunciata e consacrata dall’ultimo bacio paterno. Non lo fa con la madre, lo esige dal padre.
Come sempre aggancio furtivamente questo brandello di conversazione, che sembra passare dalle orecchie e invece attraversa direttamente la pancia collegando il diaframma e il groppo che si attorciglia nella gola, in quel buco che si forma dove si congiungono le clavicole. Una volta assorbito lo scambio di battute, il passo successivo è far germogliare un’ipotetica conversazione a cui, invece, io sia in grado di prendere parte. Una conversazione tra me e lei, o forse tra me e lui; un botta e risposta tra due entità, di cui una rappresentata dalla fusione di loro e l’altra dalla scissione di me.
- Ti fa ridere?
- Direi più sorridere.
- Perché? Non è possibile che anche un’adolescente voglia il bacio della buonanotte?
E Graham Greene mi viene in soccorso col suo tono. In queste conversazioni immaginarie parlo sempre col tono di altri. A volte è la Plath, altre Moretti, altre ancora Grossman, molte volte la Gasperini, quella che ha più empatia per le mie debolezze. Ma insomma, ora vorrei possedere la voce di Greene per dirle se solo potessi, ti spiegherei che verrà un momento in cui farà ridere anche te il fatto che tu abbia aspettato il bacio della buonanotte anche quasi maggiorenne. Ma già aver imbracciato l’arma di una testa diversa dalla mia mi fa sospendere la fantasia, senza più spazio per le fantasie.
Quando uno decide di raccontare qualcosa del proprio vissuto, ha a disposizione varie modalità, ma si tratta pur sempre di varianti di due basilari possibilità: dire o non dire.
Affidare a una narrazione che non ci faccia vergognare troppo, spostando la prospettiva in un punto che non ci appartenga del tutto; oppure armarsi della nudità, e rischiare il crollo delle proprie difese.
Vorrei poterle dire che verrà quel momento, ma la realtà brutale è che glielo confesserei solo sulla scorta del mio vissuto, che non è il suo, e non sarà mai confrontabile.
- Tuo padre non ti veniva a salutare la notte nella tua stanza?
Arrivata a questa tua età cruciale quasi non ci parlavo, io, con mio padre. E questo sarebbe il punto di partenza. Quando uno non ha più altro di cui parlare, eccetto se stesso, forse rimane solo una possibilità: spiegare cos’è successo per arrivare a questo punto. L’alternativa sarebbe continuare ad accettare che ogni singolo evento di cui si è andata componendo la propria vita, se non trasferibile con serenità agli ascoltatori, aspetti solo di essere sepolto, dimenticato, riassorbito come un versamento di liquido sotto pelle. 
Potrei dirle con relativa tranquillità che mio padre non mi veniva a salutare, no. Oppure potrei scegliere di spiegarle che un evento che ha caratterizzato tutta la sua vita da quando ha memoria, ben lungi dall’essere posizionabile esattamente al centro, zero, neutro, medio, su una scala di gradimento che va dal meno dieci al più dieci, si trova invece in fondo alla scala delle ascisse, dal lato di destra. Positivo, massimo, zero uno? Hai capito? Non è la base, ma l’altezza. È quello che crea volume, area, massa, energia.
Mio padre non mi veniva a salutare per rassicurarmi, tranquillizzarmi, assicurarmi una notte al riparo da brutti sogni, ansie e preoccupazioni. Le poche volte che ricordo di averlo visto manifestarsi a notte fonda sul mio letto per salutarmi, mescolato al saluto c’era un fiume di parole che come un’ondata di vomito racchiudeva quello che lui non era riuscito a mandar giù. Vorrei anche dirti che non ti racconto queste cose per rabbia, per vendicarmi, per gettare fango su di lui-che-tanto-è-morto-e-ora-posso-parlare, non le racconto per stupire, per sconvolgere o per attirare la tua attenzione. Le racconto perché sono accadute, e spiegano quello che sono, che ero all’epoca e che sono diventata. Spiegano perché per tutta la mia adolescenza il momento dell’addormentamento per me era difficile e problematico, perché avevo inconsciamente paura di essere risvegliata da qualcosa che non sapevo come maneggiare, il suo malcontento; spiegano perché il mio sonno era instabile (mentre non lo è mai più stato da adulta) e mi svegliavo perché sentivo rumore di avvicinamento al letto, anche se non era reale; oppure perché avevo le allucinazioni e vedevo sagome sedute sul letto, che mi guardavano ma non mi parlavano. Che in fondo era la stessa cosa di quando lui si accostava, mi parlava, e non capivo perché fossi io il destinatario delle confessioni. Sei sempre stata molto più intelligente della media, per la tua età. Così mi dicevano. Avrei anche potuto considerarlo un vantaggio e andarne fiera, se i fatti non mi avessero smentito e questa benedetta intelligenza non mi avesse solo portato a rendermi conto di più cose e a farmene ferire chiaramente di più.
Tuo padre ti viene a salutare, e, sì, sei un po’ buffa perché hai sedici anni e non credo lo farai ancora per molto. Ma preferisco (sor)ridere perché altrimenti mi si aprirebbe il petto e tu non vorresti sapere cosa ci ho sepolto dentro.
Mio padre scendeva le scale mantenendosi al parapetto con una mano e trasportando con l’altra pacchetto e accendino, con cui si sarebbe fumato a letto l’ultima sigaretta. Allora non solo si fumava ancora nei locali pubblici, ma si fumava anche dentro casa, e perfino a letto prima di addormentarsi, nello stesso letto dove avresti dormito e consumato l’ultimo ossigeno della giornata.
A me arrivava qualcosa, sicuramente la sua ultima Marlboro, raramente una More di mia madre, che non aveva mai fumato con una frequenza tale da sentire il bisogno di disintossicarsi. 
Mi chiudevo in camera, davo l’ultimo abbraccio alla mia adorata cagnolina nera che dormiva sotto al portico davanti alla mia stanza, poi rientravo nel letto e sulla sedia accanto al comodino piazzavo lo stereo portatile con dentro la cassetta che avevo scelto quella sera per addormentarmi. Cominciavo col volume a metà, poi con una lentezza impercettibile abbassavo fin quando la musica era appena udibile. Questo, prima che i walkman rivoluzionassero il piacere estremo della musica, l’intimità goduriosa dell’ascolto in cuffia e della percezione completamente privata e personale del suono.
Tu ora ascolti la musica dal telefono, ovunque ti trovi, con o senza auricolari, non credo tu possa immedesimarti nel piacere di abbassare il volume e riuscire ancora a percepire tutte le note, tutte le sfumature, assaporare un piacere solitario come quello che mi confezionavo io nonostante i paletti e gli ostacoli di cui era circondato.
Per te il letto è pace, solitudine o compagnia. Un posto di cui ti fidi e a cui probabilmente affidi già molto di ciò che vuoi condividere. E tuo padre è una presenza.
Lui non è solo un numero su un cellulare, una voce che sai come evocare; è lo specchio delle tue risate e dei tuoi pianti. Una parte di quel che sei e che diventerai, scavata nel modo giusto per permetterti di completare il lavoro con le tue forze. Una mano quando la chiedi, il sorriso di cui hai bisogno per ricominciare, e, certo, mica mi dimentico di quel bacio, più tardi, prima di spegnere la luce.

Catemera, 17/05/2018 - 23:09

Non mi piace il vento. Ma serve a muovere le nuvole e liberare il cielo. Non mi piace la pioggia. Ma serve a rimpolpare gli agrumi e le verdure che ami tanto. Non mi piace il buio. Ma è necessario per abituarsi a vedere le cose più importanti.

Cosa vedi dalla tua finestra? Milioni di temi inutili riempiti di descrizioni di oggetti, paesaggi, particolari. Uno spunto, uno stimolo all'osservazione eternamente scambiato per invito alla lista della spesa.
Dalla mia finestra vedo una casa vuota. Bella, enorme, curata. E poi disabitata. Forse sarà abitata in estate, come capita qui, ma più probabilmente è tenuta in vita artificiale, come nutrita da una macchina automatica di giardinieri, operai, uomini delle pulizie impiegati altrove e sporadicamente qui.
Se mi sporgo meglio vedo un piccolo pezzo di strada. È una strada meravigliosa, che collega questa parte di collina con le zone più trafficate. Una strada che scende a onde come una sequenza di dune, e da cui si continua a vedere il mare fino quasi all'ultimo pezzo.
Poi dipende: dalla mia finestra, ma stesa sul letto, di fianco, con il naso verso l'alto e lo sguardo non proprio indirizzato a una destinazione precisa, vedo un pezzo di cielo tagliato da un pezzo di terrazza. Quella disabitata, ovviamente. La mia immaginazione uditiva la vede riempirsi di persone e soprattutto di musica, la sente riscaldarsi grazie ad un'intera giornata di sole battente sull'asfalto con cui è pavimentata. Nell'attesa di verificare se sarà così quest'estate e se la mia fantasia sarà smentita, mi piazzo in un angolo di un'ipotetica festa di agosto, per evitare, come sempre, di partecipare, grazie a un'accurata gestione di movimenti e a una sottile delimitazione degli spazi concessi agli altri.
Dalla mia finestra si vede, se mi sporgo, tutta la parte di cortile che costeggia la mia casa, che attendo impazientemente di rinfrescare, nelle giornate torride di luglio, con la pompa dell'acqua e i miei capelli bagnati, quelli che poi si arricciano di più e si asciugano.
Dalla mia finestra vedo che questo mio mondo circoscritto è sospeso e tende a rimanere tale, finché non lo riavvio e lo faccio scorrere come dovrebbe.
Dalla mia finestra gli altri non mi vedono.

Catemera, 10/03/2018 - 19:15

Stai sbagliando persona (numero uno).
Lo dice a me, ma è lei che sbaglia. È lei che sbaglia e a me fa davvero male.

Interno notte.
Una festa a cui non sapevo di essere stata invitata, e non mi sarebbe nemmeno interessato partecipare, se non avessi visto d'un tratto lei.
Figurarsi che la riconosco da dietro, dai capelli. Quel mare di ricci neri che lei odiava tanto, da piccola, perché impossibili da domare, in ogni senso: non abbastanza ricci da essere abbandonati al loro mosso destino (mosso, come il mare, è un caso?), non abbastanza lisci da essere stirati con successo.
Anna.
Sento quel nome uscirmi dalla gola, e quella frazione di secondo in cui si gira è crudele.
Non mi riconosce.
L'uomo con cui sono venuta alla festa è lontano ma a portata di mano, pronto a raccattare la mia delusione.
Nomino gli amici comuni, le racconto una, due, tre occasioni di quel che era il nostro quotidiano di adolescenti, nomino il primo ragazzo di cui mi sono innamorata, la prima ragazza di cui mi sono innamorata, ma quei due nomi sbattono e rimbalzano sul suo viso senza generare emozione.

Mi sa che hai sbagliato persona. Me lo dice di nuovo con gli occhi impassibili. Ma io ora che l'ho sentita parlare non ho più dubbi.
È Anna.
Quell'Anna a cui ho raccontato la mia prima volta, quella vera. La stessa Anna a cui anni prima avevo confidato di essere sstata molestata. Quella i cui diciotto anni hanno rappresentato l'unico evento denominato festa a cui abbia mai avuto il piacere di partecipare durante il liceo.
Quell'Anna non esiste più.
Devo reagire velocemente. Devo fare qualcosa che mi pesa moltissimo e mi apre una ferita nel petto.
Scusarmi. E congedarmi.

Il mio uomo non sa come accogliermi quando dico semplicemente non si ricorda di me. Eppure alla fine trova il modo, scortandomi fuori, dove posso riprendere a essere invisibile per scelta.

Esterno notte.
Sul molo non c'è nessuno a parte noi due e una vecchia signora curva su un libro, rannicchiata sull'unica panchina pubblica posizionata sotto un lampione (ottimo posto per leggere, se hai una casa non attrezzata per mitigare questa temperatura estiva).

Provo mentalmente le frasi per la conversazione dell'occasione. Me gustaria llegar a su edad con esta...criniera. Non so come si dice. Criniera bianca meravigliosa. Potrebbe essere Anna da vecchia. C'è un tramonto formidabile che andrebbe compartido con tutti, ma siamo solo in due. Trattengo il fiato immaginando di fare un colpetto sulla spalla della signora e dire mira que...! ma non voglio disturbare la sua lettura.
Mi piacerebbe davvero arrivare a quell'età con quel capello bianco. E anche con questa faccia schiacciata chiaramente sudamericana. Me gustaria llegar a su edad. Grazie per aver sorriso senza aspettare che attirassi la sua attenzione.

Mi sa che hai sbagliato persona (numero due).

Interno giorno.
Sono un ostaggio. O meglio, quando mi rendo conto del posto in cui mi trovo, e di chi è, so che dovrei avere paura, ma il primo pensiero invece è solo un'assurda certezza di avere tanto tempo a disposizione. Non direi per scappare, direi forse per concludere il mio compito e poi tornare a casa.

Questa più che una festa è il luogo dove si è conclusa una festa, ma non quella dolorosa di Anna. Una festa di rappresentanza, per così dire: un evento di scena e ostentazione per le altre famiglie dello stesso clan di camorra. Io ci sono dentro ma sono solo spettatrice.
Mi tollerano, forse mi rispettano, ma non si aspettano niente da me. Il mio compito, qui e ora, è chiaramente rimettere tutto in ordine, accertarmi che il cibo avanzato non venga sottratto da ospiti di passaggio, se necessario conservare, dividere, restituire.
Le matrone vengono in cucina a rendere conto di ciò che stanno riportando dalle sale della casa, e io cerco di iniziare a razionalizzare, prima che arrivi chi deve pulire, ma per qualche motivo non ci riesco.
La mia posizione è comunque confusa: non sono sicura di quale senso della parola ospite si addica al mio status. So di non essere sola, ma è come se non avessi la possibilità di entrare in contatto con le persone note che sono nella stessa casa.
Quando mi è chiaro che non ha più senso contribuire all'organizzazione del cibo, mi lascio dietro la cucina, con tutti gli estranei che discutono in gruppi a me chiusi, e lo sguardo che lancio al portico è illuminante.
C'è solo una sedia occupata e la persona, anche di spalle, è chiaramente un poliziotto.

L'ovvia parola seguente è corruzione.

Il poliziotto che presenzia a una festa di camorristi non può essere una brava persona. Ma non c'è bisogno di dirlo ad alta voce.
È lui che si rivolge a me. Mi dice il mio nome e cognome.

- Non sarebbe meglio che riprendessi gli studi, invece di stare qui?

Penso, ma non gli dico, che a quarant'anni mi sembra inutile riprendere gli studi. È un po' tardi per invertire la rotta. Casomai dovrei lavorare.
Sorrido a malapena e aspetto la prossima battuta.

- Poi sei così brava nello sport. Perché non pensi alla carriera agonistica invece di stare con questa gente?

Prima non ne ero sicura, ma ora sì. Mi sa che sta sbagliando persona. Dico. So che esiste una mia omonima che ha circa quindici anni meno di me ed è una sportiva.
Nemmeno come poliziotto sei stato bravo a distinguere l'una dall'altra. Ti manca qualcosa, come a me.

[14/12/2017 - 19:20]

Catemera, 16/12/2017 - 11:37

Alle otto questa mattina c’era solo un velo chiaro a nascondere gli oggetti. Alle due, invece, iernotte, la luna piena scopriva a fondo il portico. Probabilmente per godere appieno le cose bisognerebbe ribaltarsi nello stesso modo.
La differenza tra il ricordo reale e quello rubato risiede nell’emozione che lo attraversa.
Peccato che l’essere umano sia capace di avvolgere di emozione anche ricordi inventati, e renderli reali da quell’istante in poi per tutta la vita. Il sogno. È l’escamotage sufficiente a rendere credibile un ricordo inventato. Il sogno è un ricordo inventato.
Questa estate ho visto la stella cadente più emozionante della mia vita, forse non solo della mia. Lenta, nitida, scavata nel nero del cielo, partita lontanissimo e giunta fino in fondo al lato opposto, a metà si è incendiata d’azzurro violento. Ho cacciato un grido di sorpresa.
Poi è andata a fissarsi negli occhi e nel cranio, in buona compagnia.
Perdere le cose. Altro che fissare. Un appunto dimenticato, singolare nel suo meta significato. Due parole, quasi tre a descrivere qualcosa che avrei dovuto ricordare e poi sviluppare, e che invece logicamente ora rimane parcheggiato in attesa di compagni, notturni, chiaramente sempre notturni, fantasticamente confezionati, deliziosamente articolati nella loro perfezione. Mai registrati per iscritto.
Quando mi dissero il suo nome lo appuntai mentalmente di fretta nel mucchio di omonimi di mia conoscenza.
Quando poco dopo me lo ripeté lui stesso pretesi anche il cognome, sorridendo della necessità di segnarlo con cura, perché le cose che partono anonime o meglio omonime finiscono sempre per diventare più speciali delle altre. Nel sentire il suo nome dalla sua voce avevo già individuato quella manciata di dettagli dell’involucro che per la gente coincidono col contenuto: età, lineamenti, orientamento sessuale, estrazione. Non mi servivano a molto ma è anche assurdo convincersi che non servano mai a nulla.
Lavoravamo in un posto di merda gestito da gente di merda e frequentato ancora peggio. Un paio di settimane dopo da dentro un sorriso aveva voluto condividere la sua normalità. Tu prendi tutte le frasi che dico agli altri: sono vere, solo che la mia ragazza è il mio ragazzo. E il mio sorriso di risposta era stato per il sollievo con me stessa di non aver sbagliato, unito alla gioia che avesse scelto me, tra tutti quanti, per rivelarlo. Accompagnato dalla risata del subito dopo anche tu allora quando dici il tuo ragazzo, no, io intendevo proprio il mio ragazzo. Ma non cambiava nulla.
Non poteva svelare di avere un ragazzo anche perché all’epoca conviveva con quello che era il (non dichiaratamente gay) figlio del rettore dell’università. In un periodo di mia folle insicurezza, in un momento in cui cercavo di risalire dalla più profonda e sedimentata disperazione, scoprire che a pelle qualcuno mi aveva scelto per la sua confidenza più essenziale mi avrebbe quasi fatto piangere di gioia, se avessi avuto spazio e soprattutto strumenti per esternare emozioni primarie.
Anche io intendevo la mia ragazza? No, ma faceva lo stesso. Per me era un caso, e avrei voluto che rimanesse tale, e sicuramente volevo lo ritenesse tale.
Prima che finisse la stagione estiva, e quindi lavorativa, mi invitò al compleanno del suo ragazzo, in una parte bellissima della città, in una casa meravigliosa perché evidentemente molto desiderata e amata. Mi ricordo una battuta - sono proprio un procione -  - no, tu sei un procione col ph - o qualcosa del genere, che mi aveva fatto ridere, e sentire definitivamente a casa. Avrei potuto scherzare con loro e di loro, come loro con me e di me. Non c’erano tabù, non c’era alcunché di politicamente corretto a rinchiudere le interazioni umane in etichette e compartimenti stagni. Non amo le feste, ma ricordo quella sera come il genere di evento a cui mi sarebbe piaciuto partecipare, nel caso. Fu appagante in un modo che non avevo mai sentito dentro.
Ho sognato quest’amico tempo fa, poi ho dimenticato il sogno, come mi capita ultimamente (è una novità della vecchiaia, ho sempre ricordato tutti i particolari di ogni singolo sogno di ogni notte). Ricordo però benissimo l’emozione di riabbracciarlo e la gioia di saperlo ancora felice di vedermi, che è poi la parte del sogno che mi serve da sveglia per venire a patti con me stessa: far finta che le persone con cui non sono più in contatto non ce l’abbiano necessariamente con me.
L’altro strumento possibile di salvezza quotidiana è azzerare, ricominciare come nel quadro di un videogioco, provando ogni volta a cercare quelle che dovrebbero essere le parole migliori, le scelte meno dannose, le svolte giuste.
Ma azzerare, qui e ora, significa anche giocare a chi potrei essere, visto che nessuno mi conosce. Mi preparo sempre dei discorsi di fantasia, per cercare le parole. Non dipende dalla lingua, è indifferente. Poi non cambia nulla, quando parlo davvero improvviso lo stesso, a volte mi viene bene, altre farfuglio, ma non importa. L’ultima volta che ho giocato aveva davvero del surreale, più del solito: pensare di raccontare a un estraneo perché avevo la faccia triste, per giunta cercando le parole in francese, dal momento che lui era francese. E che per colmo d’ironia, la nostra lingua franca sarebbe stata lo spagnolo. Oui, je parle français, mais comme l’espagnole. Je ne me souvien pas des mot toujours. Mi fermo e ci ripenso, sicura ci sia qualcosa di sbagliato, perché quando immagino le parole ovviamente le vedo scritte. Ce matin j’ai dit adieu a mon vehicle, y a un amis qui était dans la machine. Metaforicamente, s’intende, no se preocupe. Dio, che follia. Tornare indietro, pensare all’amico che non c’è e con cui non sono più in contatto, sperare (far finta) che non ce l’abbia con me, recuperare la faccia giusta per la conversazione, chiusa parentesi, punto e a capo. Dicevamo?
L’estraneo era francese, colto, architetto, cinefilo, letterato, gattaro, spagnolizzato ma non troppo, molto italianizzato dopo tredici anni di vita prima a Venezia poi a Roma. Non accettava di usare la lingua che francamente avrebbe dovuto essere la sua, considerato che anche io avrei potuto parlarla, né quella del luogo in cui viviamo, che evidentemente usava troppo spesso. L’italiano non lo parlo mai, per favore continua a parlare in italiano così lo esercito un po’. Per una volta era stato impossibile avere dubbi sull’aver parlato male o con cadenza italiana: mi aveva riconosciuto solo dal nome, l’unica parola che mi era uscita di bocca. Una voce incantevole e solo le mani a tradire l’età. Avrei voluto raccontargli qualcosa e restare ore in ascolto dei suoi progetti, mentre diceva en passant di aver lavorato per Patrice Chereau e di aver conosciuto Fellini e Visconti.
Nel recarmi all’appuntamento con quest’uomo un incrocio mi aveva stupito col cartello di termine della tariffa taxi. Terme municipal de…, allo stesso tempo avviso, perché da quel punto si paga meno. Oppure di più. Questo è un confine. Questi sono i confini.
Al ritorno avevo pensato di passare per il pezzo di strada che costeggia le piste di atterraggio degli aerei, dove tutti si fermano per provare a fare foto, me inclusa. Una manciata di ore prima c’erano troppe auto parcheggiate e gridolini. Dopo no: solo un vento feroce, una radio inafferrabile, un sole impotente.
È così che le cose non passano.
E se non bastasse arrivano i sogni umanizzanti. Quelli per esempio in cui ho una storia d’amore (non parlo mica di sesso) con persone insieme a cui mai mi verrebbe in mente di stare. L’amore non c’entra nulla, il sesso figuriamoci. Lo scopo è chiaramente che io assegni a quelle persone, dal momento in cui le sogno in poi, un legame o un contatto che non me le faccia sentire troppo estranee. Per empatizzare, per provare a immedesimarmi, come se una parte di me si accorgesse solo in seguito e sempre nel sonno che, da sveglia, rischio di rimanere troppo a distanza. Il sogno serve appunto a questo: creare un falso ricordo, gettare un ponte, sviluppare un’emozione che a differenza del freddo scampolo di memoria non potrà mai venir cancellata. È un trucco. Un trucco che odio, ovviamente.
“Un giorno ti racconterò perché ho smesso di guidare.” Perché non l’hai mai fatto arrivare, quel giorno? Da allora mi hai autorizzato a inventare storie sulle origini di questa tua scelta. Aveva a che fare con gli occhi, è l’unica cosa che ricordo tu mi abbia detto. Il mio problema invece ha a che fare con lo sguardo. Tranchant. È una bella parola, ma non ammette repliche. È questo il mio peccato originale, eccetto che con te: in questo caso la tranchant sei stata tu, credo.
Risalendo dalla Puglia sarei voluta venire a trovarti tante volte, ma non è mai stato il caso. Anche ridiscendendo dal Friuli, o dalla Lombardia, o dalla Liguria. Ero libera e pronta a farlo, non lo eri tu. Forse non lo eri più.
Emettere giudizi sommari ma definitivi.
Trovo immorale spendere così tanto soldi per un giocattolo (questa non ho potuto raccontartela, ma quanto avrei voluto).
Il resto del mondo è sempre un gradino sotto, sempre poveracci, sempre ignoranti. Tu sei escluso dalla categoria fintanto che la omaggi come è dovuto, altrimenti vieni spostato di cerchia, sempre più esterna, sempre un po’ più esterna (anche questa è accaduta molto tempo dopo il nostro distacco).
Ripenso alla morbidezza del mio nome nella tua bocca, l’unica a cui abbia mai concesso di declinarlo in un vezzoso diminutivo. La tua intelligenza e la tua ironia lo hanno sempre reso buffo e affettuoso, mai lezioso. Con la stessa soffice cadenza eri pronta a sfoggiare qualsiasi giudizio, qualsiasi commento, tutti quei tuoi cinismi brillanti che ho sempre adorato, inconfondibili. Nessun altro mai.
Rileggendo le parole che ti ho dedicato tempo fa ritrovo la stessa ferita aperta nello stomaco mentre ti guardo ritagliarti una manciata di minuti per darmi la buonanotte. Per deporre le ultime armi e arrenderti in tutta la tua fragilità ai miei occhi. Per dirmi, in cinque minuti e senza parole, chi eri davvero: e chiedermi di amarti ancora.
Sono ancora là con la mia presa sulle tue mani, le parole bisbigliate per non svegliare figlia e marito, la devozione in un’amicizia a cui non hai più creduto.
Il sogno di cui ho avuto bisogno e desiderio mi ha collocato a pochi anni di distanza, ma sempre nella tua casa. E mi ha fatto assistere alla preparazione di un pranzo, ai racconti del tempo perduto e al risveglio sul divano la mattina presto, prima della corsa alla fermata dell’autobus, l’ultimo utile per arrivare giusti al binario della stazione.
Il sogno è diventato presto ricordo elettrico, che mi ha perseguitato per molti giorni successivi. E si è tramutato in un proposito. E in un secondo sogno elettrico.
Sono all’angolo della strada, la tua, quella solo pedonale, o forse ricordo male. Ti vedo raccogliere da terra il cappellino azzurro che hai comprato solo qualche giorno fa a tua figlia. “Eva! Ti è cascato! Che poi prendi freddo.” Non è più così piccola ma è sempre, ancora e sempre, tanto vivace. Ormai va a scuola da sola e non è più necessario che tu l’accompagni tenendola per mano, lungo la strada. Scambi il cappello con un bacio, rallentando il passo prima di varcare il portone, incuriosita da ciò che spunta dalla cassetta delle lettere. Sembra un pacchetto, ma sei certa di non aver ordinato nulla. Ed è sicuramente per te, come conferma il nome, preciso, l’indirizzo, aggiornato all’ultimo trasloco, e la dicitura regalo, che garantisce l’anonimato al mittente: come fanno tanti di questi siti di acquisti online, se richiesto. Fai la tua faccia buffa, quella con le sopracciglia tese e una riga sopra al naso, quella che secondo me fa di te un’attrice e fors’anche una giocatrice di poker. Apri il pacchetto e dopo alcuni attimi di perplessità riconosci l’oggetto, che identifica senza alcun dubbio il mittente. Ma la mia visione si ferma qui, l’elettricità non procede per essere trasmessa o condotta, rimane tesa tra le estremità, tra la testa che l’ha generata e la pancia che non la sostiene.
Aspetto solo di trovare il regalo giusto.

Catemera, 25/11/2017 - 21:57

Ci sono due vecchi. Uno è supportato da alcool ma la verità è che non è elemento indispensabile. La costante è lo sguardo verso l'esterno. Dall'interno. Sono perfettamente paralleli.
Cappellino il primo, giubbottino l'altro.
Per il secondo la stasi finisce a breve. Chi lo aveva portato nel bar se lo riprende dopo una veloce telefonata.
Il primo sembra assorto ma in verità ogni volta che mi giro a guardarlo ruota lievemente un occhio azzurro verso di me. Sarebbe impercettibile se io non percepissi sempre tutti i movimenti.
Mañana vendré.
La cameriera ha evidentemente finito il turno e saluta il gestore. Siamo stranieri in una terra che non si mostra per niente straniera.
Finisco la birra, sorrido al tipo del bar, ascolto un buenaaaaas di qualcuno che è appena arrivato e sorridendo mi congedo dalla cameriera entrante.
Sulla via del ritorno, come sempre, la scoperta di zone sconosciute culmina in un quesito che da subito comincia a galleggiare, a fermentare, sospettoso e gravido. Ci sarà un modo di tornare indietro continuando ad andare avanti? Una piccola traversa seminascosta risponde alla domanda non molto tempo dopo. E siamo ancora fuor di metafora.

Catemera, 01/04/2017 - 10:09

Aggiorno i nostri sistemi di interazione e comunicazione cominciando ad appuntare le mie idee in un documento virtuale a cui ti darò accesso e di cui diventerai coautore. Un foglio condiviso, un nuovo esperimento per il nostro bisogno comune di scrivere, raccontare, trasformare in comunicazione le nostre emozioni presenti, passate future. Troveremo un escamotage, un espediente grafico, un trucco tecnico per distinguerci nella stesura della nostra storia, perché questa sarà una storia scritta a quattro mani, con un sentimento comune: rimanere, lasciare una traccia.

Ho la sudditudine senza conoscere il sud, ho la fretta di esplorare il passato del sud prima che diventi anche il mio. Ho bisogno di una Storia emotiva, perché per quella strutturata che si studia sui libri non ho più tempo. Ho bisogno di quello che sui libri non c’è e che se non l’hai vissuto si dissolve alla prima ristrutturazione.

Il sole, l’amore fraterno: due pilastri. E invece no, la pioggia. Oggi è la pioggia a comprimermi ed è lei la scintilla del mio malessere, non già ovviamente la causa reale. Il sud più scontato è probabilmente l’ultimo che devo toccare con le mie riflessioni, il sud che si manifesta dallo specchio di Alice evidentemente è quello che mi è dato analizzare al momento, togliendo tutte le certezze, tutte le banalità, tutti i luoghi comuni. Il sud come dici tu è un modo di essere, non è più niente di fisico, non è nemmeno uno stato d’animo, è una sovrastruttura che rimane sospesa fino al momento in cui qualcosa dal basso non ne rievoca elementi, non ne chiede conferme, non pretende di darne una voce. Per questo ho pensato a te, non volevo racconti, non volevo esempi, so che non me ne avresti dati, so che non interessa nemmeno te. Non volevo usare questo posto come confessionale e non intendo farlo ma oggi la mia espressione di sud passa dalla pioggia direttamente nelle ossa, e attraversa qualcosa che non so come gestire. Non siamo preparati mai abbastanza al tradimento delle aspettative d’affetto. Non siamo mai abbastanza abituati alla distanza che debilita l’affetto. Avevo dodici anni e le persone che avrebbero dovuto proteggermi e occuparsi del mio bene erano distanti, si occupavano di altro e al limite si preoccupavano di me. È la parola che odio più ferocemente: se ti preoccupi sei sempre sul punto di fare qualcosa, ma non lo fai mai. Se tu ti preoccupi soltanto, finisce che mi devo occupare io di me stessa. E così ho fatto.

Volevo mettere insieme gli elementi di una mappa del sud. Attraverso, forse, la loro negazione. Oggi piove, io sono lontana, non mi riconosco in un tessuto familiare, ho solo una manciata di amore corrisposto che langue sulla rotta di questi chilometri. Oggi piove, voglio sapere se sai spiegarmi come hai riconosciuto (una tua) Napoli anche attraverso l’acqua di una pioggia battente, voglio invitarti a trovare un nesso tra l’acqua che scende, quella che sale, quella che scorre e quella che si asciuga. Questo voglio da te, se puoi, se vuoi. Da qualcun altro, posso solo volere un risarcimento per tutte le piogge impreviste, gli amori inattesi, i dolori troppo temuti, i calori arrivati troppo tardi.

Catemera, 28/02/2017 - 22:09

Come immagini una persona che non vedi da vent'anni? Come immagini una persona che sai che in vent'anni non è cambiata, non è più cambiata, non potrà mai più essere cambiata? 
Se ti guardi, se mi guardo, chiudi gli occhi, forse li ruoti in alto a destra.
Come immagini una persona che non vedi da un numero di anni pari a quelli che vi dividono? Non lo so, tra quindici anni te lo dico.

Ma ho un'immagine molto precisa, così precisa che non ha forma ma solo un contorno. Dentro non c'è più niente, ma non è assenza, né dimenticanza, né disinteresse. Non serve più. COmunque, sai, c'è ancora tempo perché gli anni di separazione in sottrazione si equivalgano agli anni da sommare.

Sono stanca, Forty Six and 2 stanca, quasi. Frattalmente stanca. Dividiamo, frazioniamo, estraiamo radici quadrate, usiamo la matematica per ciò che non può essere quantificato.
Un giorno potrei riuscire a cantare No Need to Argue senza sentir scendere le lacrime?
E incontrare qualcuno che sia capace di decifrare le mie colpe senza impugnarle contro di me.

Catemera, 28/02/2017 - 21:58

Avrò avuto vent'anni. Ero in cucina col mio fratellastro di un anno. Dovevo controllare se la sua pastina era troppo calda. La assaggio, era tiepida. Ma faccio anche un'altra scoperta: era molto buona. Una gran pastina al pomodoro. Io mi ingozzo avidamente davanti a lui mentre lui piange dalla disperazione. Ma credo che sarà sopravvissuto al digiuno di quel giorno. I segreti, falsi o veri che siano, hanno sempre una componente buffa, ridicola. Si potrebbe avere un segreto al giorno. Se dovessi scegliere quello di oggi sarebbe il bisogno di rileggere cose che ho scritto e che per fortuna avevo dimenticato. No, non perché di scarsa qualità, e no, non per narcisismo, ma per farmele riscoprire e per riconoscermi in qualcosa che mi sembri nuovo. Oggi rileggendomi scopro una cosa che nuova non è, ossia il bisogno di indirizzare sempre le parole a qualcuno, la necessità di dichiarare almeno una volta almeno per iscritto un desiderio di legame spesso frustrato, spesso frustrante, sempre sincero benché talora frainteso. I piccoli racconti, gli appunti, i catemera che mi imponevano ogni giorno di esplorare un pezzo di realtà, sono tutti dedicati. Risalendo la corrente dei fallimenti si ricostruisce Jules oltre lo specchio. Per negazione, per contrazione, per esclusione. Nego tutto, mi contraggo, assenti esclusi.

Catemera, 05/11/2016 - 13:32

- Chi è?
- Una persona a cui ho voluto bene.
Come si fa a parlare al passato? Come si fa a identificare qualcuno per un sentimento terminato? Se a una persona hai voluto bene, gliene vuoi per sempre. Il bene può solo morire di colpo, ammazzato da un colpo di pistola, il bene non si può coniugare al passato, non è questo il caso.
Allora, forse, riformulo. Una di quelle persone a cui mi impedisco di voler bene, oggi, ora. Ammettere l'indicativo presente significherebbe esporre la ferita, aspettare il colpo, temere il dolore. Ecco, sì. Io ho bisogno di voler bene ma temo il dolore. E in questo sono uguale a tutti, e non vorrei doverlo scoprire più, non una sola volta di più. Accetterei di volere ancora bene se solo se fossi capace di non avere paura. Perché a questa persona ho voluto bene a tal punto, che se per caso dovessi rivederla so che mi esploderebbe il cuore, mi si annoderebbero le emozioni. In fondo quel sentimento non mi ha mai abbandonato: il mio affetto è in coma, incapace di comunicare col mondo esterno. Il mio è affetto sincero, ma autistico, che si ripara dall'affetto comune. Coma farmacologico per evitare di patire il dolore che fa quando cerca di raggiugnere il mondo esterno.
Insomma, chi è questa persona? Uno a cui voglio bene davvero, con una parte di me con cui non riesco a venire a patti. Con un affetto muto che ha smesso di muoversi.
 

Catemera, 04/04/2016 - 16:39

Il rollio soffice degli ammortizzatori della navetta mentre parte dall'aeroporto mi ripaga del rollio sbagliato con cui siamo atterrati. I sorrisi promozionali inutili spalmati sull'edificio di fronte al finestrino non promettono niente di buono. Solo le calde luci arancioni notturne mi distendono la pelle delle tempie.

Quanto tempo è che ho perso il contatto tra dentro e fuori, tra la parola e l'emozione?

Non importa. Sono sempre là, ibernate per futuri utilizzi. I ringraziamenti a questo punto sono d'obbligo. Sei anni fa in un periodo in cui ero prossima all'esplosione, o forse dovrei dire implosione, scrissi di seguito, di getto, due cose. Chiamarle racconti è fuori luogo, chiamarle pagine di diario mi sembra ridicolo. Nella prima prendevo la carta vetrata e me la premevo addosso per togliere tutte le sovrastrutture fino a farmi sanguinare, ma anche far uscire quello che davvero avevo dentro, quello che per me valeva la pena gli altri conoscessero di me. Quello di cui andare fiera. Quello di cui non andare fiera ma per cui ero pronta a difendermi e a battermi. Questo pezzo cominciava con io perché era l'unico strumento per costringermi a mettere una qualsiasi parola dopo il pronome, verbo, sostantivo o aggettivo. Il secondo pezzo somigliava in superficie a un racconto erotico e per questo fu guardato, scrutato, giudicato, incompreso, mentre per me erano solo appunti di un linguaggio (ancora a me parzialmente ignoto) di comunicazione con gli altri esseri umani, un modo per rivedere me stessa insieme agli altri e non sentire sempre una piccola razione di colpa per come era andata a finire con ciascuno. Un modo, sul lungo tempo, per fare pace con me stessa. Rivestendosi di una forma pericolosa, ha rischiato, e con tanti ha perso. Il rumore che hanno generato questi due pezzi dentro di me, sicuramente più assordante del rumore che hanno davvero fatto le reazioni sbagliate, non si è estinto del tutto. Ma l'eco comincia a poter essere ignorata.

Altrove, altri momenti: il rumore del sesso, quello sì che mi preoccupava. Ero convinta di poter essere sentita da tutte le stanze della casa, e non è che all'epoca il mio ragazzo fosse un grandissimo amante ma mi ero fatta l'idea che tutti i nostri rumori bisbigli lamenti e gemiti si sentissero e il giorno dopo guardavo gli altri inquilini della casa in cerca di tracce, di segnali, di indizi del fatto che avessero ascoltato tutto. Ridevo di me stessa ma era un pensiero automatico. Non so perché mi sia tornato in mente, forse perché cerco continuamente residui di quella che ero due, cinque, dieci anni fa, e qualsiasi piccolo episodio mi sembra lontanissimo, muto. Soprattutto inutile. Un'identità inattuabile, senza luogo geografico né mentale.

Essere straniera mi scagiona, mi solleva, mi azzera le colpe e i doveri, mi fa sentire l'unica libertà possibile, quella dell'assenza o meglio della falsa presenza; essere uno straniero in terra straniera è l'unico modo per riappropriarmi della mia identità, che sia dovuto a uno spostamento da una casa altrui a una mia, da una città del nord a una del sud, da una nazione all'altra; essere perennemente straniera è la scusa migliore che ho potuto inventarmi in tanti anni di fuga, ad ogni sessione di trasloco vero o falso, dopo ogni accoglienza che non si è mai tramutata in radicamento. Essere straniera in terra straniera mi costringe ogni istante a ricordarmi chi sono, mi costringe più del solito, più del dovuto, più di quanto faccia la gente normale, più di quanto facessi io fino a quando straniera non lo ero ancora. Mi impone di non dimenticare niente di me, che è forse il peggior scotto che una come me potesse pagare.

Catemera, 12/12/2015 - 21:35

Ero lontana da casa. Senza una sede per me stessa, per le mie attività, per i miei ragionamenti notturni e le scene da film diurne, respiravo l'aria romana senza i polmoni adatti a recuperare l'ossigeno. Come avessi avuto gli organi sbagliati: io sapevo solo filtrare l'aria, ma Roma era fatta d'acqua e di branchie non ne avevo. Le giornate passavano costruendo scene astratte, prive di ambientazione, come in una bozza di sceneggiatura frettolosamente appuntata: anche in questo caso, mi mancava l'organo adatto a percepire la bellezza delle persone che incontravo. Ogni cosa sana e interessante mi sfuggiva per costituzione.
Mi guardavo eseguire gesti quotidiani con un'assenza tale che era più automatico recuperarne nella memoria l'origine: intendo dire che, esaurita completamente la mia volontà, vedevo solo altro, vedevo solo gli altri, e collegavo senza pensarci i movimenti che facevo a chi mi aveva insegnato a farli la prima volta, ci vedevo loro e non me. E così, un certo modo di pulire il tavolo da cucina, o sciacquare un piatto, o perfino pulirmi la bocca con il tovagliolo e appoggiare la mano al tavolo dopo essermi tolta gli occhiali ridiventavano azioni primitive, e dentro non c'ero più io, ma mio padre, mia madre, qualcun altro senza nemmeno un volto. Quel modo particolare di sciacquare il tavolo da pranzo con la pezzolina, prima di mangiare, erano le mani di mia madre più corte e nodose delle mie, e così la giravolta che faceva fare ai piatti di cucina per assicurarsi che l'acqua corrente raggiungesse ogni punto del piatto e togliesse ogni residuo di detersivo. E dietro il gesto lento e ostentato con cui gli occhiali venivano sfilati dal naso e appoggiati da qualche parte per poi puntellare il braccio teso sul tavolo, toccando solo col polso e l'inizio del palmo ma lasciando le dita sollevate e chiuse quasi a pugno, ci vedevo la mano carnosa, nervosa e troppo irrorata di sangue come la mia, che era di mio padre.
Ma poi l'elenco dei gesti si perdeva, per fortuna, o meglio si disperdeva grazie a un'indolenza per me rara e dunque provvidenziale.
Alla fine dell'inventario dei gesti ripensavo alle persone, alla giornata, ai miei desideri rimasti in sospeso. Mi prendevo scrupolosamente cura di me stessa, decisa a non tradirmi mai, mai più, ben sapendo che avrei scontato sulla mia pelle ogni singolo minimo cedimento.
La notte dell'ultimo tradimento, in cui si erano ormai sommate troppe paure omesse e rimandate, un incubo rozzo e feroce mi tirò fuori dal sonno venendo a piazzarmisi davanti, sulle ginocchia, senza alcuna intenzione di dileguarsi abbandonandomi alla mia incoscienza.
Il bisogno di compagnia alternativa alla sua mi buttò fuori di casa, a piedi, senza meta né vergogna ("ci si vergogna delle cose brutte, non di quelle belle", questa era la nonna materna a parlare, inaspettatamente ma non per me). Fossi stata in quella che tecnicamente si crede ancora la mia città avrei sicuramente girato poco trovando subito un posto e della gente. Ma era un giorno feriale in una città complicata, e dal momento che le cose complicate mi sono affini, era quello che mi serviva in quel momento. Percorsi vari chilometri per raggiungere senza rendermene conto una zona in cui sapevo avrei trovato vita, musica o entrambe le cose. Una zona fatta per le ore piccole e le persone grandi, o almeno ci speravo.
Entrai in un locale con gente troppo giovane per me, e questo mi aiutò a colonizzare un piccolo tavolino in un angolo senza sentirmi troppo asociale. Non c'era spazio per l'ombra del mio incubo in mezzo a tutti quei ragazzi.
Un unico uomo sicuramente più grande di me era presente nell'intero locale, e conversava al bancone col barista. Aveva un viso stupendo, rilassato e sorridente, e una tranquillità contagiosa. Sembrava che i due si conoscessero, a giudicare dal tono della conversazione, eppure l'uomo stava raccontando al barista qualcosa del suo passato, di cui mi mancava l'inizio ma da cui si poteva intuire che era stato in prigione e da qualche mese aveva trovato lavoro in un'officina a un paio di isolati da lì.
Beveva Coca Cola ("Dopo i problemi di salute che ho avuto non dovrei toccare alcolici, ma uno strappo ogni tanto lo faccio volentieri."), il jeans e le scarpe da ginnastica gli davano un'aria morbida, e il solo particolare ad attirare l'attenzione della gente erano le sue braccia, piene di cicatrici ("Al lavoro metto sempre le maniche lunghe perché non voglio attirare l'attenzione, ma se non sono al lavoro me ne frego, non mi imbarazzano, fanno parte di me.").
Rimasi ad ascoltare da lontano le sue storie per tutta la notte, anche quando non fu più notte, se non per noi pochi rimasti a impedire di chiudere il locale.
Non si vergognava di nulla, per fortuna. Perché anche gli errori che aveva fatto erano per lui qualcosa di positivo, erano la sua vita e non voleva rinnegare niente, non avendo fatto male a nessuno se non a se stesso.
Mi figurai di alzarmi dalla mia tana e raggiungerlo al bancone, senza sapere esattamente cosa potergli dire se non le parole contenute in un sorriso. Ero matematicamente certa di una sua reazione positiva ma non avrei mai voluto sporcare la sua serata con le mie paure rimandate. Il sorriso glielo regalai aspettando il resto alla cassa, quando alla fine dei (miei) conti decisi di incamminarmi sulla strada del ritorno.
Tra le tante cose che sentii scriveva poesie, proprio ora che io non ne leggevo più, pensai.
Entrai in casa quando i primi bar cominciavano a tirare su le serrande. Mi chiusi la porta di casa alle spalle con delicatezza, come per non svegliare nessuno. Mi spogliai, ma senza intenzione di mettermi a dormire, solo per infilarmi sulle lenzuola a pelle nuda, e far finta che la notte coi suoi turbamenti non fosse mai esistita. Tolsi perfino i calzini, io che ho sempre i piedi freddi e non riesco mai a lasciare i piedi nudi, a meno di non essere in compagnia di qualcuno. Cercai sul letto una posizione comoda per pensare e lentamente cominciai a fare l'elenco delle cose che avrei voluto fare in giornata.

[2014-06-27 22:26:30]
            

Catemera, 17/10/2015 - 21:37

Odio la contabilità degli affetti. Odio chi sparla nei camerini e poi glissa faccia a faccia. Odio chi ha paura di parlare, inclusa me stessa quando capita. Odio l'ipocrisia, le lacrime di coccodrillo, le false scuse. Odio chi non sa accettare le distanze e rispettare i tempi per continuare a provare affetto attraverso spazi e anni. Odio chi pensa sia inutile spiegare. E odio anche chi non ha il coraggio di farlo. Odio essere accettata. Odio essere rifiutata senza saperne il motivo. Odio gli snobismi che non tollerano una minima deviazione da ciò che si considera la teoria accettata. Odio gli odiatori professionisti. Odio esser stata definita tale. Odio per caso, sul momento, nel lungo tempo, irrazionalmente, mai sistematicamente, visceralmente. Al massimo, per arrotondare il sabato.

Catemera, 04/06/2015 - 11:37

Il rumore delle porte che si chiudono, dello spazzolino che si infila tra i denti, dell'ultima goccia che risale nella caffettiera e del primo anticipo di separazione, perché tutto è rumore: traccia sonora per la luce che comincia a filtrare senza chiedere il permesso, accompagnamento casuale e sconnesso al silenzio irreale delle prime ore del mattino. Nessun rumore è neutro.
Le gambe si muovono veloci nell'ansia di sorpasso della realtà confezionata e servita, i movimenti sono sinceri ma materiale di risulta, dimenticati sul cantiere ormai chiuso insieme a un non più valido cartello di Lavori in corso. Perfino l'alba rossa in fondo a tutte le strade smette di significare qualcosa oltre la materia.
Fascio vibrante. Sorta di Roma emotiva, tutte le risonanze portano a me. Mi giro per le strade deserte trascinando una ragnatela di legami a tutti gli oggetti e i posti significanti, di cui non voglio sentire le vibrazioni. Fascio che vibra in assenza d'aria non produce suono: sordo come una corda vocale mutilata dalla nascita. Fascio vibrante mutilato, che appare sordo e risulta muto, come chi riesce ancora a percepire il suono ma non sa più come riprodurlo.
Tutte le vibrazioni portano a me, e la mia straordinaria antenna capta e parcheggia, capta e parcheggia. Il cuore si spegne, i sensi si svuotano, la mente si isola e il fascio si fa sordo.

Catemera, 03/07/2014 - 05:10

Luci di palazzi come lampi in lontananza catalizzano la mia attenzione. Tivoli sopra, io sotto. La musica (che non ho ma che immagino) mi suggerisce colonne sonore infilandosi tra i capelli come questo leggero vento che non riesce a infastidirmi.
Cerco di non ascoltarmi perché ho paura di sentire il suono delle mie ferite, tra le parole di chi sto ascoltando da alcune ore. Siamo tra amici, se vuoi puoi anche piangere. Non me lo dicono ma me lo rivolgono col pensiero. Quante volte ancora rimarrò orfana, quante imparerò nuovamente a voler bene? Fa' che accada quel che voglio: che non debba di nuovo scrivere parole su una lapide, che non torni il rimorso di essermi innamorata dell'uomo sbagliato, che non speri nuovamente di adattarmi alla rassegnazione.
Le mie parole scorrono senza troppa importanza, senza altra importanza che veicolare affetto; gli occhi si muovono e fanno il resto, la gola mi si blocca qualche minuto ma riesco a riprendere il filo senza che la Bestia abbia il sopravvento.
Alla prima occasione di contatto le mie difese crollano e gli occhi si riempiono, ma resisto: questo dolore deve morire dove deciderò io. Aspettami paziente, che ora arrivo.

Catemera, 01/06/2014 - 18:26

Due domande giuste, due risposte sbagliate.
- Sei felice?
- Sono in equilibrio.
Perché ho risposto così? Perché avevo paura dello sguardo di ritorno. Perché avrei voluto buttar fuori un limpidissimo no dal sapore malinconico e la serata non lo era.
La semplicità liberatoria del mio no sarebbe stata infelice come me e avrebbe richiesto troppe spiegazioni.
Solo pochi giorni prima scrivevo a Pietro "sto facendo qualcosa che mi piace, anche se per poco, che considerato che al momento non ho altro e mi mancano tutte le cose che vorrei, non è poco, almeno è qualcosa".
- Sei felice?
- Sono in equilibrio. Sono venuto a patti con l'idea di essere infelice.
Ma non è vero. Non riesco ad accettarlo. Mi anestetizzo tanto e a lungo per riprendere a percepire la realtà senza subirla, ma non ho accettato un bel niente. Non ho accettato di essere solo, di non essere innamorato, di essere un sopravvissuto, di sentirmi libero solo quando posso permettermi una delle mie fughe in giro di quelle senza meta.
Non riuscirò mai a fare i conti con il mio bisogno di contatto e la difficoltà di guadagnarmelo.
Sono felice? Non sono felice.
Sono anestetizzato per la maggior parte del tempo ad eccezione dei periodi in cui sento che rischierei di perdermi cose belle, e allora scelgo di togliermi quel sedativo emozionale che mi azzera i dolori ma anche i piaceri.
Sono felice? Sono sospeso in attesa di esserlo.
- Quante volte ti sei innamorato?
- Una... due... tre.
Comincio a raccontare e il cervello mi si spegne. Non so se abbia senso raccontare le mie storie. Raccontano il mio vissuto ma non dell'intensità dei miei sentimenti, o meglio della mia capacità di innamorarmi.
Perché quando non sono sedato mi innamoro in continuazione, non importa se per pochi minuti e ogni maledetto giorno. Mi innamoro sempre.
Sono stato insieme a persone di cui sapevo di non essere innamorato e a volte mi è andata bene, altre mi è servito a capire qualcosa di me: intendo, perché l'abbia fatto pur non volendolo fare.
Forse la domanda migliore sarebbe dovuta essere: "quante volte non ti sei innamorato?". Perché io potessi raccontare qualcos'altro di me, qualcosa di meno semplice e meno immediato da comprendere guardandomi.
Perché il mio bisogno insopprimibile di contatto ha sempre dei motivi gravi per decidere di mettersi in pausa e forse un giorno dovrei raccontarli a chi ha il diritto di conoscerli. E anche, perché di certe persone mi innamoro subito o prima. Ed è difficile anche così, anzi è impossibile dimostrare che non si tratti solo di un banale colpo di fulmine.
Quante volte mi sono innamorato? Escludendo quelle in cui il sentimento era condiviso (no, non ricambiato) direi tutte. Tutte le volte. Tutto il tempo che ho vissuto escluso quello in cui mi sono spento.

Catemera, 24/05/2014 - 14:46

Le gambe morbide dalle ginocchia irriverenti presero posto sul divano allungandosi impudenti in una mossa felina, una di quelle inconsapevoli ma eloquenti, una di quelle che catturano definitivamente il mio sguardo. Lui era lì  calmo e io non lo ero per niente.
Mi scappavano fuori dalle mani tutte le buone intenzioni con cui avevo promesso a me stessa di partecipare alla serata. Erano intenzioni buone per tutti fuorché me.
Si fece scivolare nell'angolo del divano mantenendo lo sguardo fisso sulle mie anche, forse sulle mie ginocchia, forse sulle mie guance, quelle su cui avevo percepito una vampata più volte nell'arco della serata, dopo così tanti anni dall'ultima volta che mi era capitato che nemmeno me ne ricordavo la sensazione.
Rifiutavo il contatto poiché ne avevo bisogno, non incrociavo lo sguardo perché avrei desiderato non distoglierlo, mi negavo ogni cosa che sapevo avrebbe generato dipendenza.

Avrei voluto tutto e per questo scelsi di non prendermi niente.

Catemera, 24/05/2014 - 13:57

L'ultima volta che ti ho visto eri sul mio letto ed eri leggerissima. La cosa più pesante erano le tue lacrime mentre cercavi di raccontarmi una frazione delle tue angosce.
Avevi sospeso il tempo, ritagliandolo solo per te e me, fino a notte fonda, finché la notte non è affondata sotto tutte le parole che sono sbucate fuori. Eppure ne ricordo pochissime. Ricordo che avrei voluto aggrapparmi in qualche modo alle tue guance per rassicurarti, con la stessa testardaggine con cui ora vorrei esserci, e non trovo il modo, non ne conosco uno valido.
Quella sera eri come trasparente. Vestita di nulla, scura e riccia. In fondo eri venuta a cercarmi. Mi ha assalito la paura di saper esplorare le tue.
Ho avuto timore di toccarti e non trovare per te una stretta che non finisse per essere una morsa.
Prima che te ne tornassi esausta a dormire nel tuo letto, avrei voluto a disposizione un modo, uno qualsiasi, per farti sentire il bene che ti volevo, un modo intimo come il sesso e rispettoso come il silenzio, un modo definitivo e totale, avrei voluto poter fare l'amore con te senza toccarti, perché passasse l'affetto e non si confondesse col desiderio.

Catemera, 14/03/2014 - 08:34

Entrai nella stanza senza sentimento. Io, senza sentimento; la stanza e chi la abitava, uniti dalla stessa passeggera assenza di sentimento.
Le mie scorte di sentimento si erano inutilmente esaurite nell'arco di tutta la notte, per scoprire soltanto, una volta di più, che sono fin troppe le persone che non considerano il sesso qualcosa di speciale, un modo per comunicare e scavalcare strati. E che quando invece ne trovi una, in qualche modo è necessario rispondere a quel contatto e nutrirlo.
Entrai nella stanza accanto a quella dov'era il letto come in una scena di un film, con una coperta avvolta addosso, ma non per quel ridicolo pudore di cui si vestono i personaggi dei film quando si riparano dallo sguardo della persona con cui hanno scopato tutta una notte. L'unico pudore che mi appartiene è quello del dolore, e di quello ero ricoperta su tutto il corpo. Avevo bisogno di nasconderlo, con la scusa del freddo.
Ero in debito con lui. Dovevo regalargli qualcosa di speciale, e avrei fatto in modo da impiegarci tutto il giorno, per scontare tutta la notte. Mentre lo guardavo fare colazione capii quale sarebbe stato il modo.
- Vuoi anche tu del caffè?
- Sì, grazie. Lascia, faccio da sola.
Il censimento delle sue ossa a contatto con le mie era ancora fresco nella mia testa mentre finivo di bere accanto a lui.
- Voglio fare un patto con te.
- Di che parli?
- Tu ieri sera mi hai chiesto di raccontarti qualcosa di me e io non ero pronta.
- E ora è cambiato qualcosa?
- Ora mi va di raccontare.
- E quale sarebbe il patto allora?
- Ci sono cose che non riesco a scrivere. Se riesco a raccontarle ora, le scriverai tu. Ti dirò tutto, ma poi dovrai scrivere questa storia a modo tuo.
Non sorrise subito. Cambiò sedia, per sistemarsi di fronte a me, e non accanto. Avvolse con le sue lunghe dita la tazza ormai vuota di latte ma ancora calda, suppongo per goderne il calore.
Con lo sguardo perso verso la finestra chiese in un sussurro:
- Dopo starai meglio?
- Lo spero - risposi.
Allora finalmente mi sorrise dritto negli occhi, alzando l'altra mano per indicare un punto dietro di me.
- Passami quella penna.

Catemera, 13/03/2014 - 08:43

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