weapon of choice

Il coltello mi sfugge e sfiora appena la mia carne in un punto che non mi è subito chiaro, con la stessa velocità con cui me ne libero tremando appena sento il contatto col braccio.
Molti anni fa avevo paura, una paura infondata ma viva: quella di perdere il controllo e farmi male. Per anni ho combinato piacere e dolore, ma riuscivo a essere responsabile solo del primo e a cercare altri che mi infliggessero il secondo. In superficie anche quello sembrava piacere, ma era chiara la sua natura soltanto dopo, quando non riuscivo a liberarmi di pregiudizi sul mio conto (come si può avere pregiudizi su se stessi?) che non erano di natura morale né, figuriamoci, dettati da matrice religiosa: erano in verità generati da un'alta considerazione di me stessa molto ben sepolta sotto un'insicurezza che si combinava con un'apparente  volubilità.
Le avventure che mi sono concessa per vari anni, in ritardo sull'incoscienza da adolescente, a intervalli ricorrenti, non sono mai state tante per via delle mie abitudini di vita poco sociali, ma la loro natura masochista si è manifestata a scoppio ritardato, quando realizzavo, anni dopo, di non associare più un nome a un volto (eppure mi ero premurata di cercare sempre qualcosa di più anche per gli incontri veloci e fugaci): sì, perché tenevo un diario, poco più di un foglio di appunti in verità, con la cronologia degli incontri.
Ho riaperto quell'elenco e mi sono rimasti non identificati cinque nomi: poi, con grande sforzo tre. Infine due, che non riesco più a collocare nemmeno incrociando le conversazioni con altre persone. È sfuggito al mio maledetto controllo, come il coltello.
Quando ho realizzato che la lama aveva percorso, seppure in superficie, la linea della vena sul polso, nella direzione giusta, cioè sbagliata, ho passato in rassegna tutti i corpi a cui ho permesso di toccarmi, per ricordarmi che ero viva.
Sì, certo, meno due.

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