accompagnami
Se avessi avuto vent’anni di più, forse, le avrei potuto spiegare che non c’è nulla di così terribile, che alla fine di quella che chiamiamo “la vita sessuale” l’unico amore duraturo è l’amore che ha accettato tutto, ogni delusione, ogni insuccesso e ogni tradimento, che ha accettato anche il triste fatto che alla fine non vi è altro desiderio tanto profondo quanto il semplice desiderio della compagnia.
[Graham Greene, “Ci presti tuo marito?”]
- Buonanotte, papi, vado in camera mia.
- Buonanotte amore.
- Dopo vieni a darmi un bacio?
- Certo.
Non ha quattro anni e nemmeno nove ma sedici eppure non rinuncia ancora a quest’appendice della sera, quest’anticipazione della notte che deve venire annunciata e consacrata dall’ultimo bacio paterno. Non lo fa con la madre, lo esige dal padre.
Come sempre aggancio furtivamente questo brandello di conversazione, che sembra passare dalle orecchie e invece attraversa direttamente la pancia collegando il diaframma e il groppo che si attorciglia nella gola, in quel buco che si forma dove si congiungono le clavicole. Una volta assorbito lo scambio di battute, il passo successivo è far germogliare un’ipotetica conversazione a cui, invece, io sia in grado di prendere parte. Una conversazione tra me e lei, o forse tra me e lui; un botta e risposta tra due entità, di cui una rappresentata dalla fusione di loro e l’altra dalla scissione di me.
- Ti fa ridere?
- Direi più sorridere.
- Perché? Non è possibile che anche un’adolescente voglia il bacio della buonanotte?
E Graham Greene mi viene in soccorso col suo tono. In queste conversazioni immaginarie parlo sempre col tono di altri. A volte è la Plath, altre Moretti, altre ancora Grossman, molte volte la Gasperini, quella che ha più empatia per le mie debolezze. Ma insomma, ora vorrei possedere la voce di Greene per dirle se solo potessi, ti spiegherei che verrà un momento in cui farà ridere anche te il fatto che tu abbia aspettato il bacio della buonanotte anche quasi maggiorenne. Ma già aver imbracciato l’arma di una testa diversa dalla mia mi fa sospendere la fantasia, senza più spazio per le fantasie.
Quando uno decide di raccontare qualcosa del proprio vissuto, ha a disposizione varie modalità, ma si tratta pur sempre di varianti di due basilari possibilità: dire o non dire.
Affidare a una narrazione che non ci faccia vergognare troppo, spostando la prospettiva in un punto che non ci appartenga del tutto; oppure armarsi della nudità, e rischiare il crollo delle proprie difese.
Vorrei poterle dire che verrà quel momento, ma la realtà brutale è che glielo confesserei solo sulla scorta del mio vissuto, che non è il suo, e non sarà mai confrontabile.
- Tuo padre non ti veniva a salutare la notte nella tua stanza?
Arrivata a questa tua età cruciale quasi non ci parlavo, io, con mio padre. E questo sarebbe il punto di partenza. Quando uno non ha più altro di cui parlare, eccetto se stesso, forse rimane solo una possibilità: spiegare cos’è successo per arrivare a questo punto. L’alternativa sarebbe continuare ad accettare che ogni singolo evento di cui si è andata componendo la propria vita, se non trasferibile con serenità agli ascoltatori, aspetti solo di essere sepolto, dimenticato, riassorbito come un versamento di liquido sotto pelle.
Potrei dirle con relativa tranquillità che mio padre non mi veniva a salutare, no. Oppure potrei scegliere di spiegarle che un evento che ha caratterizzato tutta la sua vita da quando ha memoria, ben lungi dall’essere posizionabile esattamente al centro, zero, neutro, medio, su una scala di gradimento che va dal meno dieci al più dieci, si trova invece in fondo alla scala delle ascisse, dal lato di destra. Positivo, massimo, zero uno? Hai capito? Non è la base, ma l’altezza. È quello che crea volume, area, massa, energia.
Mio padre non mi veniva a salutare per rassicurarmi, tranquillizzarmi, assicurarmi una notte al riparo da brutti sogni, ansie e preoccupazioni. Le poche volte che ricordo di averlo visto manifestarsi a notte fonda sul mio letto per salutarmi, mescolato al saluto c’era un fiume di parole che come un’ondata di vomito racchiudeva quello che lui non era riuscito a mandar giù. Vorrei anche dirti che non ti racconto queste cose per rabbia, per vendicarmi, per gettare fango su di lui-che-tanto-è-morto-e-ora-posso-parlare, non le racconto per stupire, per sconvolgere o per attirare la tua attenzione. Le racconto perché sono accadute, e spiegano quello che sono, che ero all’epoca e che sono diventata. Spiegano perché per tutta la mia adolescenza il momento dell’addormentamento per me era difficile e problematico, perché avevo inconsciamente paura di essere risvegliata da qualcosa che non sapevo come maneggiare, il suo malcontento; spiegano perché il mio sonno era instabile (mentre non lo è mai più stato da adulta) e mi svegliavo perché sentivo rumore di avvicinamento al letto, anche se non era reale; oppure perché avevo le allucinazioni e vedevo sagome sedute sul letto, che mi guardavano ma non mi parlavano. Che in fondo era la stessa cosa di quando lui si accostava, mi parlava, e non capivo perché fossi io il destinatario delle confessioni. Sei sempre stata molto più intelligente della media, per la tua età. Così mi dicevano. Avrei anche potuto considerarlo un vantaggio e andarne fiera, se i fatti non mi avessero smentito e questa benedetta intelligenza non mi avesse solo portato a rendermi conto di più cose e a farmene ferire chiaramente di più.
Tuo padre ti viene a salutare, e, sì, sei un po’ buffa perché hai sedici anni e non credo lo farai ancora per molto. Ma preferisco (sor)ridere perché altrimenti mi si aprirebbe il petto e tu non vorresti sapere cosa ci ho sepolto dentro.
Mio padre scendeva le scale mantenendosi al parapetto con una mano e trasportando con l’altra pacchetto e accendino, con cui si sarebbe fumato a letto l’ultima sigaretta. Allora non solo si fumava ancora nei locali pubblici, ma si fumava anche dentro casa, e perfino a letto prima di addormentarsi, nello stesso letto dove avresti dormito e consumato l’ultimo ossigeno della giornata.
A me arrivava qualcosa, sicuramente la sua ultima Marlboro, raramente una More di mia madre, che non aveva mai fumato con una frequenza tale da sentire il bisogno di disintossicarsi.
Mi chiudevo in camera, davo l’ultimo abbraccio alla mia adorata cagnolina nera che dormiva sotto al portico davanti alla mia stanza, poi rientravo nel letto e sulla sedia accanto al comodino piazzavo lo stereo portatile con dentro la cassetta che avevo scelto quella sera per addormentarmi. Cominciavo col volume a metà, poi con una lentezza impercettibile abbassavo fin quando la musica era appena udibile. Questo, prima che i walkman rivoluzionassero il piacere estremo della musica, l’intimità goduriosa dell’ascolto in cuffia e della percezione completamente privata e personale del suono.
Tu ora ascolti la musica dal telefono, ovunque ti trovi, con o senza auricolari, non credo tu possa immedesimarti nel piacere di abbassare il volume e riuscire ancora a percepire tutte le note, tutte le sfumature, assaporare un piacere solitario come quello che mi confezionavo io nonostante i paletti e gli ostacoli di cui era circondato.
Per te il letto è pace, solitudine o compagnia. Un posto di cui ti fidi e a cui probabilmente affidi già molto di ciò che vuoi condividere. E tuo padre è una presenza.
Lui non è solo un numero su un cellulare, una voce che sai come evocare; è lo specchio delle tue risate e dei tuoi pianti. Una parte di quel che sei e che diventerai, scavata nel modo giusto per permetterti di completare il lavoro con le tue forze. Una mano quando la chiedi, il sorriso di cui hai bisogno per ricominciare, e, certo, mica mi dimentico di quel bacio, più tardi, prima di spegnere la luce.
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