addendum

Nei giorni in cui ci stavamo lasciando riempii i tempi fermi leggendo. Come morta, più che morta, sembravo incamerare quei segni piccoli, davanti agli occhi, sulla carta, senza capirne il significato.
Lessi metà dei tuoi libri, non avendone più altri con me. Non avendone di miei. Ne avevo di nostri ma i nostri libri non significavano nulla, in effetti.
Lessi anche quelli che ero certa non mi sarebbero piaciuti. Non ho mai più letto così tanto, come in quei mesi. Lessi anche i classici, quelli noiosi, quelli che mai avrei letto per scelta. Li lessi per non lasciarmi il tempo di pensare a come riempire le giornate.
I classicisti pensano di aver capito il mondo. Credono di essere stati messi a parte di un segreto in più, insieme alle derivazioni italiane dagli aoristi.
E noi non avevamo capito, non stavolta, non c’era scusante.
In casa nostra c’erano sempre stati profumi buoni di cibo. Anche quando non erano granché, la cena o il pranzo. E capitava. Eccome, se capitava.
Le parole ‘casa’ e ‘nostra’ hanno appena finito di lasciare sbuffi nell’aria, che riprendo il filo del libro che sto leggendo. Quello che leggo ora, per scelta, per voluttà per noia.
Come se fosse il primo libro che leggo, mi meraviglio delle parole nuove. Mi meraviglio che finisca ciascun capitolo.
Tanto è solo la mia piccola divagazione sul presente, questo presente attutito e muto. Poi torno al passato, senza futuro.
Nei giorni in cui ci stavamo lasciando faceva caldo. Mi faceva caldo, come dite dalle vostre parti, e mai modo di dire fu più azzeccato, perché era inverno e non poteva far caldo. La tua stanza infatti era gelida, come le nostre conversazioni.
Gelide anche le lacrime. No, non le lacrime in assoluto. Le lacrime sono calde, sono calde perché sfogano una pressione, non possono essere fredde.
Ma le lacrime erano fredde perché non mi curavo della loro scomparsa.
Piangevo in silenzio, di notte, come se fosse ogni volta il primo pianto della mia vita, ed è un po’ così in fondo, perché ogni volta che ho pianto mi è sempre sembrato che fosse diversa dalle altre, che fosse insopportabile, che fosse il massimo livello di sopportazione, che fosse una svolta, che fosse un buon motivo per cedere.
Le lacrime sono fredde quando piangi distratto. Senza passarti le mani sulla faccia, senza controllare cosa ti si sta creando addosso.
Piangi cercando di far finta di non essere tu a piangere, sperando che i presenti non vedano, con la stessa ingenuità di quando cerchi di confonderti tra i fumatori convinta che a fine serata i capelli non sapranno di cenere e la pelle di nicotina.
E così, quando piangi indifferente, sembrano trenta secondi e ne sembrano solo altri trenta e trenta ancora, e pensi che le lacrime si asciugheranno. Loro si asciugano, e quando passi la mano sulla faccia e sotto al collo e alla mascella, in effetti non c’è traccia di lacrime, ma solo di sale freddo che ha lasciato un solco invisibile nella direzione del collo, nella direzione del dolore. Quel sale, sì, è davvero freddo, come i secondi che ti sono rimasti per riflettere. Gli spettatori si girano, e hai qualche secondo per passare una mano feroce sulla faccia, e togliere i residui di questo freddo insolente e impudico, e la tua faccia sa ancora di pianto, ma il freddo rimane in mano. Te la vorresti tagliare quella mano, ma è tua, ed erano tue anche le lacrime, e lo negheresti tutta la tua vita, ma eri tu anche trenta secondi prima.
do you love me? do you love me? saturday come slow…
Eppure il giorno prima mi avevi accolto con gioia. Eri venuto a prendermi alla stazione, eri in ritardo. Sorridente, con la tua giacca un po’ stropicciata e le guance stanche di affanno, per la corsa. Io ero rimasta su una panchina, con un tremendo raffreddore, che non era riuscito a bloccarmi. Seduta e infreddolita, indifferente a quel po’ di febbre che mi portavo dentro da giorni, ero là solo per aspettarti, solo perché sapevo che saresti venuto. Là, con tutte le mie borse e le buste e i libri nuovi comprati come ogni volta, comprati con l’allegria negli occhi e il rimorso delle ore dopo. Mi avevi preso di mano le borse e le buste baciandomi come se non ci fossimo mai separati, felice di vedermi, felice del sole che illuminava la piazza, felice che fossi là ad aspettarti. Era stato soltanto il giorno prima e avevo testimoni, avevo la pattuglia che sorvegliava la stazione, avevo i turisti, avevo tutte le mie cose e perfino le tue.
Ma la mattina dopo nemmeno mi guardavi in faccia; e stavi scegliendo di comunicarmi i tuoi poderosi ragionamenti, le tue conclusioni felici e spensierate, senza di me. Io c’ero, ma avresti preferito scrivermi una lettera, mandarmi un messaggio, farmi una telefonata. Ti guardavi i piedi, poi controllavi il computer, poi pesavi le tue pause e riprendevi a ignorarmi.
Non ce la facevi, e per me non eri un uomo.
Non ce la facevo, ma ero un residuo di donna.
Non ce la facevamo e il mondo attorno era di cartone, come le persone finte che lo popolavano.
Parlavo con i colleghi e le loro facce mi si deformavano nel cervello, si ridisegnavano con contorni grossi, matita numero 2HB, grossa e nera, senza sfumature. Io raccontavo che la mia vita andava a rotoli e loro per fortuna non avevano consigli né bacchette magiche da impacchettare e regalarmi, e io non potevo far altro che guardare le loro facce impotenti e i loro sorrisi di condoglianze anticipate.
Erano fermi.
L’acqua al faro era ferma. E il mare era muto e stupefatto.
Inverno pieno e non avevo la forza di toccare l’acqua, lei così nera e grigia, avrei almeno dovuto provare a familiarizzare, perché mentre il mare mi voleva, la terra mi cacciava.
Il giorno che le nostre vite si spezzarono e la mia si spezzò più forte, per fortuna non c’era nessuno al mare, altrimenti avrei inscenato una commedia sull’acqua. Furono le onde a portarmi in giro, invece. Percorsi correndo il lungomare almeno un paio di volte, in auto. Con la tua auto.
Non sapevo più dove metterla, tutta quell’acqua. Non sapevo più dove mettere me perché in tutta quell’acqua non avevo più un posto.
Una volta mi sarebbe bastato la punta aguzza di uno scoglio. Un angolo di roccia. Ora tra me e le scogliere c’era repulsione, come tra due poli magnetici che si respingono.
Rimasi tutta la notte a mare.
Rimasi finché un po’ di quell’acqua mi entrò, comunque, tutto sommato. Il mare ed io riuscimmo nonostante tutto a parlarci. Un po’ della sua umidità salata divenne mia e un po’ del mio livore assurdo divenne suo.
La mattina alle cinque misi di nuovo in moto la macchina e cercai senza conoscer le strade di raggiungere la stazione.
Attraversai la città a me ancora ignota, che per il momento non avrei cominciato ad esplorare.
Costeggiai lentamente le strade per incrociare lo sguardo dei primi uomini in piedi, i panettieri, qualche giornalaio, e provare a sorridere e a farmi sorridere.
Mi ricordai appena in tempo dell’alba: i pescatori erano ovviamente già lì. Volevano fregarmi sul tempo, ma io ne volevo solo un pezzetto.
L’alba a mare è una specie di risveglio lento e mitigato, prolungamento del riposo uterino, fatica scandita a piccoli passi. Il sole si scalda con un rispettoso silenzio, e il cielo si prepara in tempo. L’alba a mare dovrebbe essere l’opposto del tramonto a mare, e invece cammina così, con semplicità, con calma naturale, con la pazienza dei giusti. Non c’è niente da dire dell’alba a mare, o almeno, le cose che si potevano dire gliele ho dette quella sera, quando eravamo soli, in due, e forse non ci saremmo più rivisti, non a breve.
Feci il rapido calcolo delle persone che potevo incontrare ancora, anche dopo l’alba. Non più di dieci, prima, molto più di cinquanta, ora.
Ormai, troppe. Il mio segreto non sarebbe stato più tale.
Ripresi la lenta marcia verso la stazione.
Non so come, ci riuscii.
Raccolsi le mie ultime risorse e le mie prime perplessità.
Raggiungi la stazione, e anche un verdetto. L’auto, fedele, seguiva le mie mosse.
La stazione, il mare, il porto. Era tutto vicino, tutto a portata di mano. L’auto non voleva decidere al posto mio.
La parcheggiai, la chiusi, la controllai. La guardai, ci guardammo, e mi dimenticai tutto quel che avrei dovuto raccomandarmi.
Sì, fui scrupolosa: la parcheggiai, la chiusi e lasciai le chiavi all’ufficio oggetti smarriti della stazione per andare a prendere un treno. Senza alzare gli occhi dal pavimento arrivai al binario 10, o forse era l’8, o forse non guardai nemmeno il numero; mi caricai sul treno che si era appena fermato evitando con lo sguardo il tabellone così fiero di comunicarmi la destinazione.
Era la tua macchina e nessuno aveva più le chiavi.

[2011-12-13 20:15:14]

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