after hours
Ero lontana da casa. Senza una sede per me stessa, per le mie attività, per i miei ragionamenti notturni e le scene da film diurne, respiravo l'aria romana senza i polmoni adatti a recuperare l'ossigeno. Come avessi avuto gli organi sbagliati: io sapevo solo filtrare l'aria, ma Roma era fatta d'acqua e di branchie non ne avevo. Le giornate passavano costruendo scene astratte, prive di ambientazione, come in una bozza di sceneggiatura frettolosamente appuntata: anche in questo caso, mi mancava l'organo adatto a percepire la bellezza delle persone che incontravo. Ogni cosa sana e interessante mi sfuggiva per costituzione.
Mi guardavo eseguire gesti quotidiani con un'assenza tale che era più automatico recuperarne nella memoria l'origine: intendo dire che, esaurita completamente la mia volontà, vedevo solo altro, vedevo solo gli altri, e collegavo senza pensarci i movimenti che facevo a chi mi aveva insegnato a farli la prima volta, ci vedevo loro e non me. E così, un certo modo di pulire il tavolo da cucina, o sciacquare un piatto, o perfino pulirmi la bocca con il tovagliolo e appoggiare la mano al tavolo dopo essermi tolta gli occhiali ridiventavano azioni primitive, e dentro non c'ero più io, ma mio padre, mia madre, qualcun altro senza nemmeno un volto. Quel modo particolare di sciacquare il tavolo da pranzo con la pezzolina, prima di mangiare, erano le mani di mia madre più corte e nodose delle mie, e così la giravolta che faceva fare ai piatti di cucina per assicurarsi che l'acqua corrente raggiungesse ogni punto del piatto e togliesse ogni residuo di detersivo. E dietro il gesto lento e ostentato con cui gli occhiali venivano sfilati dal naso e appoggiati da qualche parte per poi puntellare il braccio teso sul tavolo, toccando solo col polso e l'inizio del palmo ma lasciando le dita sollevate e chiuse quasi a pugno, ci vedevo la mano carnosa, nervosa e troppo irrorata di sangue come la mia, che era di mio padre.
Ma poi l'elenco dei gesti si perdeva, per fortuna, o meglio si disperdeva grazie a un'indolenza per me rara e dunque provvidenziale.
Alla fine dell'inventario dei gesti ripensavo alle persone, alla giornata, ai miei desideri rimasti in sospeso. Mi prendevo scrupolosamente cura di me stessa, decisa a non tradirmi mai, mai più, ben sapendo che avrei scontato sulla mia pelle ogni singolo minimo cedimento.
La notte dell'ultimo tradimento, in cui si erano ormai sommate troppe paure omesse e rimandate, un incubo rozzo e feroce mi tirò fuori dal sonno venendo a piazzarmisi davanti, sulle ginocchia, senza alcuna intenzione di dileguarsi abbandonandomi alla mia incoscienza.
Il bisogno di compagnia alternativa alla sua mi buttò fuori di casa, a piedi, senza meta né vergogna ("ci si vergogna delle cose brutte, non di quelle belle", questa era la nonna materna a parlare, inaspettatamente ma non per me). Fossi stata in quella che tecnicamente si crede ancora la mia città avrei sicuramente girato poco trovando subito un posto e della gente. Ma era un giorno feriale in una città complicata, e dal momento che le cose complicate mi sono affini, era quello che mi serviva in quel momento. Percorsi vari chilometri per raggiungere senza rendermene conto una zona in cui sapevo avrei trovato vita, musica o entrambe le cose. Una zona fatta per le ore piccole e le persone grandi, o almeno ci speravo.
Entrai in un locale con gente troppo giovane per me, e questo mi aiutò a colonizzare un piccolo tavolino in un angolo senza sentirmi troppo asociale. Non c'era spazio per l'ombra del mio incubo in mezzo a tutti quei ragazzi.
Un unico uomo sicuramente più grande di me era presente nell'intero locale, e conversava al bancone col barista. Aveva un viso stupendo, rilassato e sorridente, e una tranquillità contagiosa. Sembrava che i due si conoscessero, a giudicare dal tono della conversazione, eppure l'uomo stava raccontando al barista qualcosa del suo passato, di cui mi mancava l'inizio ma da cui si poteva intuire che era stato in prigione e da qualche mese aveva trovato lavoro in un'officina a un paio di isolati da lì.
Beveva Coca Cola ("Dopo i problemi di salute che ho avuto non dovrei toccare alcolici, ma uno strappo ogni tanto lo faccio volentieri."), il jeans e le scarpe da ginnastica gli davano un'aria morbida, e il solo particolare ad attirare l'attenzione della gente erano le sue braccia, piene di cicatrici ("Al lavoro metto sempre le maniche lunghe perché non voglio attirare l'attenzione, ma se non sono al lavoro me ne frego, non mi imbarazzano, fanno parte di me.").
Rimasi ad ascoltare da lontano le sue storie per tutta la notte, anche quando non fu più notte, se non per noi pochi rimasti a impedire di chiudere il locale.
Non si vergognava di nulla, per fortuna. Perché anche gli errori che aveva fatto erano per lui qualcosa di positivo, erano la sua vita e non voleva rinnegare niente, non avendo fatto male a nessuno se non a se stesso.
Mi figurai di alzarmi dalla mia tana e raggiungerlo al bancone, senza sapere esattamente cosa potergli dire se non le parole contenute in un sorriso. Ero matematicamente certa di una sua reazione positiva ma non avrei mai voluto sporcare la sua serata con le mie paure rimandate. Il sorriso glielo regalai aspettando il resto alla cassa, quando alla fine dei (miei) conti decisi di incamminarmi sulla strada del ritorno.
Tra le tante cose che sentii scriveva poesie, proprio ora che io non ne leggevo più, pensai.
Entrai in casa quando i primi bar cominciavano a tirare su le serrande. Mi chiusi la porta di casa alle spalle con delicatezza, come per non svegliare nessuno. Mi spogliai, ma senza intenzione di mettermi a dormire, solo per infilarmi sulle lenzuola a pelle nuda, e far finta che la notte coi suoi turbamenti non fosse mai esistita. Tolsi perfino i calzini, io che ho sempre i piedi freddi e non riesco mai a lasciare i piedi nudi, a meno di non essere in compagnia di qualcuno. Cercai sul letto una posizione comoda per pensare e lentamente cominciai a fare l'elenco delle cose che avrei voluto fare in giornata.
[2014-06-27 22:26:30]
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