Junkie Shuffle
L'uomo si tolse il cappello lentamente, per non disordinare i capelli, seppur ricci e scomposti. Sorrise, nel silenzio della sua calma, pensando all'ultima donna che ci aveva infilato le dita, in quei ricci, per scorrerne la morbidezza. Ormai decisamente passato.
Un'estate delle più calde, quella, ma il cappello era necessario per ripararsi dal sole: i suoi occhi non erano più abituati alla luce, non ora che trascorreva quasi tredici ore al giorno in un ufficio situato dieci piani sotto il livello del suolo.
Il tramonto sul mare era puro piacere per gli occhi, e con quel caldo il vento gli portava alle orecchie il rumore delle onde, anche se nella desolazione della strada sarebbe riuscito a sentirle comunque tutte, una per una, come fossero in fila.
Guardava il cappello tra le dita e sorrideva, senza farsi contagiare dalla malinconia di tutte le assenze, e le mancanze. Poteva immaginare l'intera strada come un'estensione di casa sua, ormai, anzi, poteva farlo con l'intera città: si sarebbe potuto seder per terra sull'asfalto, a sorseggiare una tazza di tè, o meglio, considerato il clima, una limonata ghiacciata. Nulla di tutto questo gli generava angoscia. Solo un'enorme serenità colma di aspettative.
Lasciandosi il sole alle spalle, riuscì a tornare in direzione di casa con il cappello tra le mani, senza sentire il bisogno di coprirsi di nuovo gli occhi. Il caldo bollente sulle spalle e sulla schiena, tenace e rassicurante per tutto il tragitto del lungomare, non gli impediva di sentire i rumori degli oggetti, i rumori che immaginava facessero gli oggetti con la loro consistenza, con la loro semplice esistenza. Faceva finta che ci fossero persone a toccare tutto ciò che incontrava lungo la strada, cercava di ricreare vita vera attorno a sé.
L'ingresso del suo palazzo, ormai senza portiere, sembrava spaziosissimo, pur essendo sempre stata una di quelle porticine piccole che si aprono nei portoni più grandi, uno di quei passaggi solo pedonali ricavati nel legno per comodità e sicurezza. Il portiere era sempre stato taciturno ma in continuo movimento, ed era raro rientrare a casa senza trovarselo letteralmente tra i piedi. Fissandosi i piedi, i suoi grandi e lunghi piedi, si ricordò della prima volta in cui aveva incontrato quest'ometto piccolo, a partire dalle scarpe, una mattina che si avviava al lavoro a testa bassa e aveva appunto visto, come prima cosa, i piedi piccini e svelti di quell'uomo che aveva appena cominciato a lavorare nel loro palazzo. Scontrandosi distratto e quasi calpestandolo. Nel cortile del palazzo ormai avanzava solo l'edera.
Aveva perso l'abitudine di chiudere la porta di casa da molti mesi. Non serviva più a nulla: e lasciarla aperta gli dava la sensazione che potesse accadere ancora qualcosa di inaspettato, qualsiasi cosa non si potesse programmare e attendere in modo identico un giorno dopo l'altro. Era a causa di una porta dimenticata aperta che una sera era entrata l'ultima donna di cui si era innamorato. Ossia, l'ultima donna. Cenò usando gli ultimi piatti puliti che riuscì a trovare, seguendo distrattamente la fine di un vecchio film di cui non era più necessario ricordare la trama. Era domenica, il giorno in cui in televisione ancora passavano film in bianco e nero del periodo d'oro di Hollywood. Il giorno dopo avrebbe dovuto ricordarsi di ricominciare la settimana lavorativa.
Eppure aveva ancora quelle abitudini della vita di prima. Dormiva con gli stessi orari. Puntava ogni giorno la sveglia, o meglio, ogni giorno feriale. Anche la mattina dopo, al suono familiare della sveglia, spalancò gli occhi come se quel suono potesse ancora sorprenderlo. Erano le cinque, aveva tempo per tutto, eppure si dava fretta da solo, senza ansia, senza fastidio, con il semplice piacere puro di chi ha ancora qualcosa da concludere.
Si alzò dal letto lasciandosi dietro i resti dell'umidità notturna. Non aveva più senso accendere il condizionatore, con tutta l'aria che poteva circolare dalle finestre e porte spalancate, ma la temperatura continuava a salire, e le lenzuola al mattino erano spesso bagnate.
Fece ogni cosa come al solito, come se continuasse ad avere un senso: farsi la doccia, radersi, profumarsi, vestirsi. Scelse perfino una cravatta, come ogni giorno, nonostante poi ogni sacrosanta volta arrivato in ufficio si rendesse sempre conto di aver faticato moltissimo lungo la strada per non togliersela. In ufficio riusciva a sopportare la temperatura, lì la profondità era ancora l'unico modo di sopravvivere all'assenza di aria condizionata. Ma per strada ogni singolo giorno malediceva il senso del dovere, di quel dovere reso inutile dall'assenza di testimoni.
Scese nel garage e nel buio dal sapore di muffa un tremito delle mani riuscì a turbarlo al punto da far cadere in terra le chiavi della macchina un paio di volte. Fu costretto a poggiare la valigetta sul cofano dell'auto per cercare il mazzo di chiavi tra le ruote e sotto il paraurti. Senza sapere il motivo di quella strana agitazione, rimase immobile qualche minuto, una volta entrato in auto, prima di accendere il motore e uscire dal parcheggio. L'agitazione svanì al secondo incrocio, al secondo di tutta la serie di incroci a cui continuava ligio a fermarsi pur sapendo che avrebbe sempre trovato la strada libera per l'immissione.
Non c'era traccia del sole che gli aveva scottato la schiena lungo la passeggiata di piacere che si era concesso per tornare a casa la sera prima. La città era ancora buia e l'umidità non ancora evaporata gli affannava il respiro. Non poteva essere solo l'ansia che gli era partita dalle dita.
Al semaforo rosso si fermò a pensare all'eventualità di cercare il paio di chiavi di riserva che sicuramente doveva aver conservato nel cassettone in camera da letto. Non gli balenò nemmeno un attimo in testa l'ipotesi di disfarsi dell'automobile, data la breve distanza tra casa e ufficio. Era uno dei ganci che continuavano a trainarlo in una parvenza di normalità: e forse, detto tra noi, fare ogni giorno quei pochi passi a piedi nel silenzio dei palazzi avrebbe rischiato di generargli disorientamento.
Allungò il percorso di un paio di chilometri per raggiungere il distributore di benzina, anche se continuavano a chiamarsi così pur distribuendo ormai solo quello strano surrogato di carburante che negli ultimi anni di vita globale era stato generato dal riciclo degli ultimi rifiuti. Di quelli, ce n'erano sempre stati in abbondanza, e i distributori self service garantivano rifornimento praticamente illimitato. Fece il pieno, poi ripartì, badando di non superare i limiti di velocità dei centri abitati: d'altro canto, a voler essere pignoli, la legge non aveva mai precisato come, quanto, o quando abitati. Il rumore placido del motore sembrava suggerirgli sempre la cosa giusta da fare.
Arrivò al Palazzo di Controllo, facendo il giro fino al retro per parcheggiare nel suo posto, quello assegnato da quando era stato assunto quattordici anni prima, in un periodo di traffico così intenso che a volte era necessario litigare nonostante il posto fosse suo di diritto.
Entrò nel grande e lucido edificio, fatto di specchi e di corridoi con l'eco. Timbrò il cartellino senza fretta, poi si diresse verso l'ascensore. Durante quei dieci piani in discesa verso il buio continuò a pensare a quello strano tremito e a come disfarsene. Di fronte all'uscita dell'ascensore, si fermò qualche istante a frugare nelle tasche per cercare le monete giuste, e al distributore automatico proprio in fondo al corridoio prese una cioccolata calda per cominciare la giornata con le mani piene e la bocca dolce.
Con calma si avviò alla sua stanza, di fronte all'ascensore e all'inizio dello stesso corridoio. La porta della stanza doveva essere sbattuta per il vento, perché era stranamente socchiusa. Entrò e controllò rapidamente con lo sguardo tutto quel che gli capitò sotto gli occhi. Tutto uguale a come lo aveva lasciato venerdì sera. Appoggiò la valigetta sulla scrivania, facendosi spazio tra tutti i dischi esterni ormai in disuso, che aveva rottamato nel corso delle ultime settimane. La aprì e ne estrasse le carte necessarie a cominciare la giornata. Il computer acceso continuava a distribuire dati, come era giusto che fosse.
Lo schermo era andato in spegnimento automatico. Con le carte in mano, l'uomo si avvicinò alla scrivania e lo riaccese, per poi prendere posto sulla sedia girevole.
Un piccolo minimale riquadro sullo schermo dichiarava:
TERRITORIO MONITORATO 28%
TEMPO RESIDUO STIMATO non disponibile
VITA UMANA 0
L'uomo riprese a sorseggiare la cioccolata calda badando di non sporcare le carte estratte dalla valigetta.
La settimana era appena cominciata.
(da un'idea di Roberto Sidoti)
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