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La sera del 27 novembre, dopo la chiusura dei negozi, Roma precipitò nel silenzio.
Avevo i polpacci gonfi e stanchi per tutte le scale che avevo dovuto affrontare all'uscita del Quirinale.
Volevo piangere, e speravo di riuscire a cominciare in tempo, perché qualcuno mi vedesse e si preoccupasse per me. Ero preoccupata? Non credo ci fosse più nulla che valesse quel sentimento.
Avrei dovuto dirigermi alla fermata dell'autobus e invece la sorpassai, con tutte le mie borse e i miei pesi, e non mi accorsi di essere intontita finché non arrivai a casa. Cinque chilometri completamente a piedi, non tantissimi, semplicemente inaspettati.
Sotto casa, prima di entrare nel portone, sentii una voce bassa e promettente. Non sentivo dire il mio nome da quella voce da due anni, e la contrazione che ne seguì fu ingiusta, perché crudelmente uguale a quelle che preparano al sesso.
Leo aveva trovato il mio indirizzo ed era venuto a cercarmi, e non riuscivo a immaginare alcun motivo valido per un'azione così folle.
- Io l'ho lasciata. Finalmente.
Finalmente avrei dovuto dirlo io. Lo disse lui lasciandomi senza battuta.
- Cosa vuoi da me?
- Nient'altro che te. Se lo vuoi.
- Hai pensato di piombare qua senza nemmeno accertarti che fossi libera?
- Non lo sei?
- Non è questo il punto. Ti sembra normale venire qua a fare questa dichiarazione?
- Finalmente l'ho capito. Dovevo rischiare. Dovevo venire a dirtelo.
- Sì, che mi ami e mi amavi anche allora.
- E però tu non mi hai risposto.
Avrebbe potuto far un gesto romantico, buttare là un abbraccio da film, un bacio definitivo, una lacrima liberatoria. Invece mi mise una mano attorno al collo. Sapeva che mi avrebbe fatto capitolare. Provai a non baciarlo, provai anche a non accostarmi.
Due anni prima ci eravamo sentiti, ma forse quattro o cinque anni prima era stata l'ultima volta che ci eravamo visti.
Mi era mancato il suo odore, e il rumore che facevano le sue labbra quando avevano urgenza di bisbigliare qualcosa all'orecchio. Mi erano mancate le sue guance morbide con la barba appena fatta.
L'ultima volta che ci eravamo visti ero andata a casa sua prima di raggiungere gli altri con cui dovevamo uscire, e lo avevo assistito come una sorella mentre si faceva la barba, lo avevo consigliato su cosa indossare, ci eravamo scambiati gli ultimi abbracci, prove generali di quelli che non avevamo il timore di scambiarci in pubblico.
La serata era andata bene, ma non sapevo sarebbe stata l'ultima.
E ora che era venuto a cercarmi, avevo un conto di arretrati di intimità da pretendere, non c'era fretta, non c'era paura.
Prima di cedere e di sentire le mie labbra attaccarsi alle sue come fonte d'aria, mi vidi prendere le sue mani, senza capire le mie stesse intenzioni. Le allontanai da me pur continuando a carezzarle con le dita.
Sì, era lui che doveva gli arretrati a me, era da lui che volevo restituita l'intimità anticipata, la mia, quella di cui aveva abusato.
- Vieni con me.
Prese le mie parole senza stupore, solo come piacevole sorpresa.
Sempre a piedi, sempre col silenzio che il 27 novembre mi aveva offerto, lo portai in giro per le strade, con la scusa di mangiare un boccone insieme, ma in realtà con l'intento di stancarlo. Non gli permisi di prendere la macchina prima, non gli concessi di tornare in autobus dopo, né tanto meno in taxi.
A notte inoltrata tornammo al punto di partenza, casa mia, ma con addosso una serata insieme, fredda e calda, vecchia come le nostre e nuova come nostra soltanto. In ascensore, salendo al mio appartamento al quinto piano, gli presi la testa fra le mani per rubargli un morso dalla bocca. L'avevamo fatto, a volte, in passato, di sfuggire i baci morsicandoci gli angoli della bocca: ora era la mia voglia, e non la mia coscienza, a chiedermelo.
Una volta in casa, gli sottoposi la mia richiesta senza mezzi termini.
- Non succederà niente.
- Non è importante, non sono venuto per quello, ma per stare con te.
- No, non hai capito. Non succederà niente finché non sentirò che mi avrai restituito tutta l'intimità che ti avevo prestato.
- Non sono sicuro di aver capito.
Allora, lentamente, cominciai a mostrarglielo.
Gli tolsi il cappotto e appoggiai borsello e sciarpa nell'ingresso. Lo presi per mano e mentre attraversavo il corridoio premurosamente cominciai a spogliarlo. Lui sapeva di poter fare da solo ma ovviamente la sua attenzione era tutta nel cercare di capire le mie intenzioni.
Prima di raggiungere la camera da letto, mi fermai all'altezza del bagno, accesi la luce, lo spinsi accanto alla doccia.
Mentre l'acqua calda piano piano gonfiava di vapore le pareti, mi dedicai a spogliarlo tutto, con devozione, con un calore preparatorio, ma senza malizia.
- Ora ti fai la doccia, e io ti guardo. Così imparo a conoscerti.
Rimase in silenzio, ma senza imbarazzo, e non ce ne fu per niente, in realtà, nemmeno dopo, nemmeno i giorni dopo.
- Devo guardarti, scrutarti, farti mio. Devo avere tempo. Ti ecciterai? Può darsi, non mi importa. Ti vedrò eccitato. Nessun problema. Non è quello il punto.
Sotto il getto dell'acqua era semplicemente stupendo. Mentre lo guardavo era davvero mio, erano le mie regole in quel momento ma ci si atteneva consapevolmente e col desiderio di farlo. Ebbi il tempo di guardare ogni cosa che mi era stata negata, e non parlo del sesso. Parlo di pelle, di gesti, di ingenuità, di intimità.
Appena chiuse l'acqua gli tesi il braccio per accompagnarlo fuori dalla cabina e asciugarlo, io, nessun altro, senza permettergli di farlo da solo.
Ancora tremante di vapore, lo portai sul letto, per infilarlo così, nudo, sotto le coperte, e restituirgli calore. Mi concessi qualche istante per sfiorarne l'intero corpo al di sopra delle lenzuola, sindone emotiva che speravo si sarebbe conservata.
Infine, lo coprii il più possibile, spensi la luce, e accomodandomi vestita sopra le coperte, sul fianco, accanto a lui, riuscii per la prima volta a sorridergli con tutte le mie lacrime. Era ormai il 28 novembre, e il silenzio era finito.
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