tutte le parentesi
Credo capiti una volta a tutti nella vita. Almeno una volta. Il tempo attorno si tende e si spezza, ogni emozione si ferma. Ogni emozione eccetto una: la compassione per se stessi. La sensazione peggiore che mi sia mai capitata. Col dolore ci sto bene, con l’indifferenza vengo a patti.
La compassione è crudele: l’aria diventa come il rumore di un palcoscenico a teatro vuoto e tutte le azioni sembrano involontarie. Ci si guarda come allo specchio, ma non ci si vede come in un riflesso. E si prova pietà per qualcosa che si vorrebbe allontanare dall’idea di se stessi. Qualcosa, come dire tutto. Provare pietà per se stessi genera altra pietà, in un circolo vizioso da cui si vorrebbe fuggire, per far finta di non essere l’oggetto di tutto quel trambusto.
Sono cinque anni che te ne sei andata, dopo cinque anni che ti ho vissuto. Si sottraggono, invece di sommarsi.
Sono cinque anni che ho deposto le armi, e ho cominciato a curarmi le ferite. Ma di quale guerra, non me lo chiedere.
Quel tuo compleanno capitava di sabato e ne eri sollevata, lontana dalle false cortesie dei colleghi. Ti sei svegliata tardi, senza accorgerti della mia muta presenza nella stanza accanto. Ti scrutavo in cerca di foto, che è il mio modo di assaporare quel che provo, quelle foto che poi non sono più riuscito a rubarti. Sono riuscito a possederti in ogni modo, eccetto la fotografia. E non è solo la questione del nudo, su cui peraltro non ti ho mai convinto: sono state le foto a prescindere, tutte, tutte quante, perché le volte che l’ho fatto, che ci sono riuscito, ti sei vista in un modo che ti ha spaventato, un modo più intimo, più crudo, più a fondo di quanto tu stessa avessi mai osato andare. Poi, quando non ci sono più stato, allora sì che hai avuto bisogno di sentirti raccontare in quel modo violento e intenso, ma non hai trovato un fotografo onesto quanto me. E certamente nessuno che amasse la parte più nera che le mie fotografie avevano saputo catturare. Ma tutto questo dopo, solo dopo: da cinque anni a questa parte solo una volta hai provato a cercarmi, hai sperato di riavere su di te quella mia mano che sapeva scavarti e denudarti. Io però dovevo salvarmi, e questo non includeva regalarti le mie preziose analisi.
Ho aspettato che ti svegliassi in silenzio, per la testa tutte le tue foto piene di espressioni mai più decifrate, quelle rubate a tua insaputa.
Prima che ti alzassi mi son lasciato la sicurezza alle spalle per venire a raccoglierti, muto, indeciso e sperduto tra i segnali che avevi lasciato in giro. Non ho sentito i tuoi freni quando ti ho sollevato dal letto, non ho compreso i tuoi scatti quando mi sono immerso nella poltrona, con te in braccio, per una dose del calore di cui pensavo di aver diritto. Hai risposto ai primi baci, ai secondi, mi hai esposto il collo e le clavicole. Poi ho sentito la mia voce buttar fuori qualcosa che somigliava a “Ti stai ritraendo”. “Hai ragione, lo sto facendo.”. Ognuno dei due, in realtà, aveva indirizzato le parole a se stesso.
Quando ho sentito la mia voce, le mie mani non hanno più saputo che fare, non sapevano che farsene di te ma non avevano il coraggio di staccarsi. Non avevo più privilegi, non c’era più possesso. Avessi voluto parlarmi, mi avresti detto che non esiste possesso, tra due che stanno insieme, e certamente io non potevo credere di possederti. Avessi saputo parlarti, ti avrei risposto che erano tutte cose scontate, ma che pretendevo ancora. Nessuno dei due si è preso la briga di fare la sua parte.
Ascolto della musica che finisce per essere solo mia, della musica che ho cercato accuratamente, per pensare solo a me, e rivedo mentalmente tutte le frasi che ho evitato di dire quel giorno. Si raccolgono tutte insieme, aggiungendosi a quelle che non ho avuto il coraggio di dire agli estranei, ai familiari, agli altri amori.
“Vorrei che stessi fingendo, e mi amassi ancora.”, quattordici febbraio duemilaotto.
“Stai pensando a me, lo so che mi vuoi, eppure non lo dici per non esporti per prima.”, sei gennaio duemilaundici.
“Vorresti che ti scopassi e niente più, perché sono noioso.”, dodici maggio duemiladue.
“Ti sto odiando perché non riesco ad amarti.”, ventidue agosto duemilaquattro.
“Abbi il coraggio di dirmi che faccio fuggire la gente perché sono un uomo triste e melodrammatico.”, otto settembre duemilatre.
“Sono l’uomo giusto per te e tu la donna giusta per me, anche se sei di un altro.”, diciotto giugno duemiladieci.
“Mi odi perché ho scopato con la tua migliore amica e non mi hai dato il permesso di svelartelo.”, dieci ottobre duemilanove.
“Io ti ho amato, ti ho amato davvero, e avresti dovuto provarci almeno una volta, nel nome del bene che dicevi di volermi.”, due dicembre duemilasette.
“Fai questa follia e vieni a vivere con me.”, sedici marzo duemilacinque.
“Sei bella, e io mi sento così solo che non mi importa se pensi che ti stia parlando solo per provarci.”, quattro aprile del novantotto.
“Hai smesso di essere il mio migliore amico.”, venti novembre duemilasei.
“Sono vigliacco, non sono depresso.”, ventiquattro luglio duemiladodici.
“Verrà un giorno in cui ammetterai che avevo ragione, e che ci amavamo.” E quel giorno però alla fine è venuto, quindi ho cancellato la data, perché quella frase ha smesso di disegnarmi patetico.
Ma ad ogni altra frase aggiunta al libriccino immaginario, sono stato sempre più patetico. Ad ogni frase in più, so come mi sarei reso più patetico se non avessi fatto la scelta giusta. Quella dell’omissione.
Il compleanno te lo sei passato da sola, senza di me e con i tuoi amici. Ovvero da sola. Hai preso le tue cose, ne hai dimenticate altre, non hai dimenticato che dovevi dimenticare me.
Oggi, a cinque anni di distanza, nel giorno più caldo e affollato di questa estate che siamo bravi a occupare solo col mare, ho messo in pratica la scelta più difficile, più noiosa, più faticosa e più lontana dai miei desideri. Steso sulla spiaggia, ben lontano dai miei scogli, infilato nella folla, mi sono lasciato guardare, ignorare e fantasticare addosso, ho sopportato occhi, voci e frenesia, ma le ho dette tutte: ho smistato tutte le frasi, e sono rimasto finalmente solo, senza di loro, a prendermi la parte di vita che mi era dovuta.
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