the switch
Quella notte poi aspettai la sua partenza per ubriacarmi. Mi ubriacai perché ero rimasta sola.
L’orologio segnava le tre e venti e nella mia follia ebbra ero convinta che si fosse fermato. Ma era estate e faceva troppo caldo per verificare, anche se avrei dovuto, anche se un getto gelido sopra la nuca sarebbe stato cosa saggia.
Gli avevo rivelato tutto, anche le mie paure, anche che non avevo tutte le sue paure. Forse anche quello lo aveva spinto ad andarsene.
Nel mio tempo fermo, mentre cominciavano a svanire i contorni degli oggetti e dei miei dolori, misi su della musica a caso, ballandola fuori tempo con quel compagno assente ormai non più mio.
Buttai giù dei libri dagli scaffali per rileggere frasi troppo note adatte alla serata.
Buttai giù una serie di libri senza rimetterli a posto nell’ordine corretto, cosa che sapevo mi avrebbe fatto incazzare il giorno dopo.
Quando fui sicura di poter affrontare l’umido della notte grazie all’alcool che avevo in corpo, presi le chiavi di casa e uscii in strada. Non era tardi per la mia città e credo non lo sia mai. A quell’ora i locali già chiusi erano ancora pochi.
Avevo con me il cellulare e un grado di spudoratezza sufficiente a chiamarlo nonostante lo spiacevole finale. Composi il numero e attesi di sentire uno squillo, ma fermai la chiamata subito, prima di verificare. Fermai la chiamata e ripresi a camminare, senza sapere dove andare, senza percepire reazioni o pensieri, nemmeno lo scatto fisico che fa la mia pelle quando una qualsiasi emozione rimane ignorata.
Camminai poco, poco e male, e arrivai al mio ex liceo senza badarci, in un posto dove non sapevo che fare, dove in effetti non avevo bisogno di darmi spiegazioni, e dove, per sentirmi in compagnia, andai a sedermi in una delle nicchie del muro di cinta.
Forse la telefonata non era nemmeno partita. Riprovai. Lo immaginavo in treno, a quest’ora: lui, con la sua modesta statura e la sua muscolatura pronta, rannicchiato in un espresso notturno in cerca di quiete. Lo immaginavo sereno e tutto sommato sollevato dal distacco; non volevo torturarlo e non era certo per piangergli addosso che volevo sentire la sua voce. Non avevo scuse, in effetti, se non la mia ubriachezza. E sapevo, in realtà, di non avere nemmeno lontanamente il bisogno di sentire la sua voce. Però rispose. E risposi anch’io.
Infine, nonostante tutto, rispose.
Pochi mesi dopo già avevo rimosso la conversazione. La conversazione in sé come evento, intendo, perché delle parole dette, mi sfuggiva il senso già nell’istante in cui avevo chiuso. Se non posso raccontare la telefonata è proprio perché non ero in grado di comprenderne il contenuto nemmeno mentre la stavo facendo.
Quando infilai il cellulare in tasca, subito dopo, la statua di Dante che si trovava nello spiazzo della scuola aveva cominciato a farmi domande.
- Beh, che si dice?
Non rispondevo, lo ignoravo anche solo col pensiero.
- Oh, che vi siete detti?
Il fatto è che non avevo una risposta. Non era rifiuto.
- Ma che hai?
Guardai la statua e le risposi ad alta voce solo per essere sicura di esprimere un pensiero di senso compiuto. – Niente- dissi ad alta voce. Cosa che peraltro era quasi vera.
Dante non era convinto.
- Come niente? Con quella faccia?
Stavolta non lo dissi ad alta voce. – Sto aspettando di sentire qualcosa. – .Mi aspettavo di sentire un pizzico, un solletico, un’emozione positiva, un’emozione negativa, una qualsiasi reazione determinata da quella telefonata.
L’ultima cosa che sentii dirmi da Dante fu
- Perché, non ne senti?
Non sentivo niente. Ero ubriaca, d’accordo, ma non sentivo niente.
Avevo ridacchiato come una stupida tutto il tempo e ora non potevo far altro che rimanere tesa in ascolto, tastando un silenzio da cui pretendevo di tirar fuori qualcosa di non deleterio, di non doloroso per me. Per un attimo desiderai perfino di scovare in quel vuoto qualcosa di tremendo, o che mi ferisse. E invece non c’era più niente.
Pensavo, ancora avevo quel minimo di lucidità che mi permetteva di formulare pensieri. Pensavo, vorrai sapere cosa stessi pensando di lui.
Ero convinta, e lo sono ancora, che mi avesse amato senza badare a me.
Cioè, che in un certo senso non mi avesse mai amato. Mi aveva dato un assaggio di cosa volesse dire provare emozioni, ma poi si era impigrito, come sempre, come aveva sempre fatto per tutta la sua vita, convinto che qualcun altro avrebbe riempito quel vuoto che lui mi aveva creato.
Non c’è rancore in questi miei pensieri, e non ce n’era nemmeno mentre li stavo organizzando quella sera nonostante la massiccia dose di alcool che mi portavo in giro in corpo.
In quel momento c’era solo questa infantile attitudine a rivangare continuamente il passato, ma sarebbe scomparsa presto, una volta riacquistata la lucidità, una volta riappropriatami della mia vita senza pretendere di occuparla di continuo, in queste notti disperate.
Non c’è rancore ma c’è rabbia, nelle mie parole, e ho bisogno di continuare a parlare nonostante la maggior parte delle lamentele se le sia sorbite Dante quella sera. C’è il tremendo disgustoso bisogno di continuare a descrivere e raccontare le cose, perché ho paura di dimenticarle, perché sono quasi convinta che finirei per trasformarle, nel corso del tempo, trasformarle in altre storie in cui io possa diventare vittima dei miei errori oltre che dei suoi. Magari anche dei tuoi, e non è quello che voglio.
Dopo la telefonata, infine, non ebbi più il coraggio di rimanere in strada. Dopo Dante correvo il rischio che perfino le piante cominciassero a parlarmi.
Rientrai silenziosa come mai in casa, ancora ubriaca ma non stanca.
Presi dall’interno dell’Ulysses il pacchetto di sigarette nascosto che non avevo voluto fargli vedere fino all’ultimo, quando gli avevo confessato che a causa sua avevo ricominciato a fumare. Prima di andare in stazione a prendere in treno credo che l’ultima cosa che mi abbia detto sia stato quanto questa cosa lo facesse incazzare, il fumare di nascosto intendo, non il fumo in sé. Ovviamente aveva ragione ma ovviamente non potevo dargliela.
Cercai l’ultima sigaretta del pacchetto e me l’accesi vicino al fornello.
Poi mi misi ad aspettare il sonno sul balcone.
La strada sotto era deserta, mi dava una bella sensazione di controllo sul quartiere, e perfino i gatti erano a quell’ora più stanchi di me. Spero non mi abbia sentito nessuno, perché improvvisamente scoppiai a ridere guardando le piante semimorte di cui mi ero dimenticata, nell’angolo del balcone.
Semimorte perché decisamente non ci riesco, lo sai.
Sarà che non le amo. Ossia, le amo ma che si curino da sole. In teoria avremmo dovuto pensarci insieme, io e lui. Ma la verità è che nemmeno con te ho intenzione di fare progetti così lunghi come quello di prendermi cura di una pianta stagionale.
Le piante per me sono un accessorio: non riesco ad averci a che fare. Hanno bisogno di troppe attenzioni, come i cani. Io no, amo i gatti, che vengono da me ma poi sono indipendenti, e capiscono di dover comunque far sempre affidamento sulle proprie risorse. Io non posso fare attenzione a loro, alle piante intendo, figuriamoci: non riesco nemmeno a ricordarmi di tagliarmi le unghie. A parte casi eccezionali.
Anche da piccola lo facevo: mi entusiasmavo per le piante nuove, sì, le portavo a casa, le riponevo ordinatamente sul terrazzo, le innaffiavo per la prima settimana, poi mi aspettavo che riuscissero a sopravvivere magicamente da sole, che diventassero bellissime, le più belle, speciali solo perché appartenevano a me.
Facevo lo stesso con le persone. L’ho fatto con gli amici. L’ho fatto con lui. Forse l’avrei fatto anche con te, se tu non ti fossi parzialmente vaccinato. Con gli esseri umani in generale, ho agito irrazionalmente, piazzando i soldatini e pretendendo l’azione, sussurrando loro a bassa voce: “ebbene, ora uccidetevi”. Sempre troppo stanca per proseguire, incostante, strafottente. Troppo pigra per addossarmi tutte le responsabilità del caso.
I pomeriggi estivi, insieme a lui, duravano poco. Mi stendevo a terra sul terrazzo, a farmi scongelare dal sole, ignorando la neonata del piano di sopra, che cantava a squarciagola di un’allegria contagiosa che non mi contagiava mai.
Lui aveva ragione a non voler prendere altre piante, ci pensavo proprio quella sera, di ritorno da Dante, guardando quel paio di povere creature morenti nell’angolo. Non ne voleva prendere perché sapeva che avrei dovuto occuparmene io, che non so occuparmi nemmeno di me stessa.
Il giorno prima, che era cominciato troppo presto, mi aveva distrutto. L’allegria che non mi aveva contagiato mi tornava in mente irritandomi. Accovacciata nel buio del letto, avevo odorato casa fino a decidere di chiamarlo. E dopo la serata, che ora si era conclusa con i deliri tra Dante e me, ero tornata a casa senza sapere chi fossi.
Ero me stessa mentre fumavo sul balcone ridendo insieme ai barboni infreddoliti del quartiere.
Ero me stessa mentre prima di uscire avevo buttato per aria tante cose che lui aveva impregnato della sua presenza. Ero me stessa in quell’ultima rabbiosa sega, sì, hai capito, una sega, che mi ero fatta per riaddormentarmi, visto che l’alcool non era bastato. Prima di crollare, fissando gli oggetti che io avevo scelto per quella casa, che io avevo sistemato, che noi avevamo voluto, pensavo a te. Quella casa che avevo sistemato e a cui ora cominciavo a ribellarmi, col disordine, con la sporcizia, con i soprammobili gettati per terra sperando si rompessero, quella casa era per me sangue rappreso da grattar via dalla pelle. Era il conto dei miei giorni diviso per l’ammontare delle mie forze. Ossia, sempre un numero molto piccolo.
Però. Però, c’è da dire che anche lui ne aveva le palle piene ben prima di ammetterlo. Ossia, ben prima che gli dessi l’opportunità di ammetterlo.
Dal letto, mentre mi addormentavo, quella sera pensai a te. Forse ti ho chiamato senza rendermene più conto, non ero più lucida. Non lo so. Credo di averlo pensato perché è stato molte settimane dopo che, invece, ti ho chiamato (e solo di questa seconda telefonata conservo memoria).
Nei mesi successivi, la bambina del piano di sopra cominciò a dire bozze di parole, tra un canto e l’altro. Io ero ancora in fase calante, invece. Dal mio lato del letto, da cui non avevo voglia di muovermi, finii per imparare a memoria quel che pensavo di ogni oggetto di fronte. Avrei voluto chiedergli del suo amico Sabino, ma ormai era già partito.
Fu allora, dopo due settimane di deliri, che mi decisi a chiamare te. Fu solo per fuggire e cambiare aria che ti proposi di vederci in un terzo posto. Partire insieme, dalla stessa città, con lo stesso treno, vicini nello stesso scompartimento, ma consumare il nostro tempo lontano dalle mie piante morte e dai tuoi lutti non superati.
Feci il biglietto per tutti e due all’ultimo momento, in stazione, quando non speravo più che mi rispondessi. E invece sei apparso dopo poche ore. Io ero là con i biglietti e tu che mi guardavi tremando dalle scale della metropolitana. Io ero là con i biglietti e tu avevi assecondato la mia follia senza chiedermi nemmeno spiegazioni.
Non eravamo amanti, non eravamo una coppia. Non eravamo niente se non due persone che riescono a stare bene insieme. Erano mesi, forse anni, che non ci eravamo visti, e non sapevamo nemmeno più come toccarci, come parlarci.
Salimmo sul treno che ci avrebbe portato a centinaia di chilometri da lì, e ci avrebbe scagionato.
Mi raccoglievi le mani nelle mani.
Mi guardavi ammutolito, ma non per deficit di emozioni.
Mi sfioravi come hai sempre fatto, ma durante quel viaggio mi eccitavi senza saperlo. Mi eccitavi carezzandomi le ginocchia, sfiorando con le nocche il mio interno coscia, distratto, lontano. Quell’azione che avevo sempre tentato di spogliare di significati sessuali, ora mi si ribellava prepotentemente.
Ti infilavi con le gambe tra le mie gambe senza renderti conto che stava venendo meno la mia certezza che quella fosse solo amicizia, che non ci fossero tra le mie cellule, sulla mia pelle, recettori che stessero fremendo.
Invece fremevo. Le tue dita sulle ginocchia e fra le cosce mi turbavano, e non avevo il coraggio di dirtelo. Non avevo il coraggio di ammettere che stavo perdendo quella partita.
I tuoi sguardi, a tratti, mi sembravano valicare il confine che fino ad allora avevamo condiviso.
Il contatto con ogni parte del tuo corpo aveva significato. Tu non volevi dirmi niente e il tuo corpo mi parlava. E il mio rispondeva contro la mia stessa volontà.
Quel viaggio, e il viaggio di ritorno, ugualmente, mi hanno turbato. Mi hanno risvegliato, hanno sollecitato qualcosa che avrei dovuto sperimentare con lui, e invece lui mi aveva soffocato.
I polpastrelli con cui sfioravi il mio collo, la mia schiena coperta da dieci strati di vestiti o coperte, le tue ginocchia incastrate dietro alle mia gambe, ebbene: tutto riattivava scosse elettriche dimenticate. Mi stavi riscoprendo. Riassaporavo la consistenza dei brividi.
Furono gli ultimi mesi in cui conservai la mia passione per le unghie lunghe. Chissà se ti ricordi com’erano. Le tagliai al ritorno perché una rabbia eccitata, una febbre non trattenuta, mi aveva fatto tenere i pugni serrati dal momento in cui avevo lasciato la stazione all’istante in cui ero rientrata in casa. Ero a casa, in cucina, quando mi ero accorta dei pugni rimasti contratti fino ad allora. Avevo poggiato sul tavolo della cucina le chiavi, poi il portafoglio, poi il biglietto per due andata e ritorno che ci aveva accompagnato lungo quella settimana, lontani da casa. Con tutte quelle cose sul tavolo, avevo finalmente rilassato le mani: inebetita, stordita, spaventata, con la mano di fronte al viso, avevo visto una goccia di sangue cadere proprio sul biglietto, dal palmo destro ormai inciso da quelle dannate unghie che lui adorava tanto.
Tagliarle a zero fu un attimo.
Quella notte non riuscii più ad addormentarmi, pensando a quanto avevi reso erogene le mie ginocchia e le mie gambe in treno.
Mi alzai dal letto, perché mi stavo torturando.
Accesi lo stereo mettendo musica a caso dalla mia raccolta. Una canzone che amavamo entrambi mi riempii gli occhi di quella cazzo di acqua salata che ci brucia le ferite e purtroppo anche le scommesse.
Seduta al tavolo della cucina, una lacrima cadde sul biglietto e andò a sciogliere il sangue del giorno prima.
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