tu chiamali, se vuoi

Eravamo due, mio fratello ed io, ma così attaccati da sembrare quasi uno e mezzo. Eravamo piccoli, fragili, lo siamo ancora adesso che siamo adulti. Non vedevamo molti amici e avremo fatto forse cinque feste in tutta la nostra infanzia, ma quando venivano Loro era una gioia. Loro erano i figli di un amico di papà, che ogni tanto, molto raramente, decideva di rompere quella barriera di sociopatia minuziosamente innalzata dai miei genitori e spietatamente resistente anche alla proverbiale, forse sopravvalutata, socievolezza e socialità di mio padre. Come si coniugano i due opposti? Semplice: andando a vivere in un posto ideale, studiato, curato, scelto con pazienza e lontano mille miglia da quei pochi (mia madre) e molti (mio padre) amici rimasti in città. Non gli egoismi, non le mancanze, nessuna incomprensione. Metti una manciata di chilometri extra tra te e il mondo e avrai la garanzia che anche i più tenaci e affezionati vacilleranno. È cominciato tutto così. A detta di tutti mio padre amava circondarsi di persone, aveva facilità ad attaccar bottone e stare in mezzo alla gente e legava con tutti, ma mi sono fatta l’idea che fosse vero solo in parte. Una persona che dopo un po’ comincia a mettere in discussione tutti e giudicare e fare illazioni non può mantenere un rapporto sincero e profondo in piedi, al limite può circondarsi di conoscenti, ed è questo quello che credo sia avvenuto negli anni.
Ad ogni modo, Loro. Adoravo quei due, li adoravamo, parlo sempre di me e di mio fratello. Erano i figli di uno degli amici superstiti di mio padre, che due o tre volte all’anno per un certo periodo superava appunto la barriera e veniva a trovarci in un giorno del fine settimana. La cosa partiva totalmente casualmente, e non ho memoria di pranzi insieme, quindi deve essere sempre accaduto nei pomeriggi. Al sopraggiungere della sera immagino che mia madre abbia proposto di risolvere la cena di noi bambini con dei panini, dei toast, ma non ho alcuna immagine mentale parcheggiata nel cervello.
Quello che è rimasto indelebilmente sono le serate passate in quattro a fare non ho la più pallida idea di cosa, qualche riavvicinamento con gli adulti, a tratti, solo per dire ancora un po’, che voleva dire che dalle 9 si guadagnava tempo fino alle 11, poi fino all’una, spesso anche oltre. Due fratelli piccoli, due grandi, a sessi incrociati: forse avevamo undici e tredici anni le prime volte, quattordici e sedici le ultime.
Odio le feste ma ricordo questi pomeriggi-sere-notti con un piacere, un’allegria e una soddisfazione totali e ineguagliabili. Quei due fratelli erano simpatici, speciali e in più erano perfettamente speculari e complementari a noi due fratelli.
E poi c’era il resto.
Riuscivo perfettamente a sovrapporre i due livelli. Il secondo non era di amicizia. Timido ma spiritoso, battuta pronta sottile che arriva in sordina a rompere lunghe parentesi silenziose, occhialetto da secchione (ma io sapevo che non lo era, non del tutto almeno, perché era brillante ma selettivo). Tra Loro due, Lui mi affascinava, ma apparteneva a un mondo troppo lontano dal mio, la città, un liceo rinomato, una vita quasi adulta molto prima che io potessi anche solo sospettarne l’esistenza. Forse se avesse abitato più vicino, o avessimo condiviso la scuola, avrei pensato un giorno di poterci provare, ma così, con queste visite fugaci e assolutamente imprevedibili, non avrei mai preso in considerazione l’ipotesi di scindere il gruppo in due per rischiare cosa, poi? Di scoprire che nel suo mondo, quel mondo vero che mi sembrava quello di un alieno, aveva una ragazza molto più chic di me, molto più matura di me, e soprattutto molto più a portata di mano di me?
Non mi ero mai posta il problema, non mi era venuto il dubbio, insieme a loro mi sentivo speciale ma insieme a lui mi sentivo goffa e non mi percepivo minimamente attraente.
Avevo l’ossessione delle tette, venivo da una discendenza di donne le cui forme erano limitate al culo e ai fianchi e invidiavo disperatamente tutte le compagne di classe già sviluppate e anche quelle non sviluppate, come si dice, ma comunque con più tette di me.
Mi sentivo invisibile con lui. Sapevo che ci divertivamo in quattro, ma il confronto a due mi metteva in difficoltà, in difetto, come se il totale fosse due ma io fossi meno di uno e lui un po’ di più. Senza, beninteso, per questo evitare di morirgli dietro, di sbirciare i suoi sospiri e il modo in cui si muoveva o scrivere brutte poesie e inutili pagine di diario in cui immaginavo di stare con lui, pur non sapendo di preciso cosa avrei fatto con lui in quel caso.
Per caso finì.
Non ricordo l’ultima volta che ci vennero a trovare, ma si vede che a un certo punto, con il precipitare della nostra situazione familiare, con l’azzeramento del mondo esterno e l’implosione di quello interno, nessuno badò più a cosa stesse facendo mio padre, nemmeno quel conoscente, amico o altro. Oppure ci badò e mio padre rifiutò ogni gesto di amicizia: non posso saperlo.
Passarono anni, la vita di mio padre si concluse, la mia anche per un po’, poi ricominciò, non da zero purtroppo, ma da tre. Mi spiace, Massimo, ma in alcuni casi zero è meglio.
Ne passarono almeno dieci, di anni, in realtà più probabilmente quindici. Mi innamorai, anche se era della persona sbagliata; ma finché la ritengo giusta, non cedo alle tentazioni, non mi faccio irretire dalle lucine colorate e luccicanti.
Loro non esisteva più, Lui a un certo punto riapparve nel malefico congegno degli amici degli amici. Dico che mi contattò lui perché forse mi venne la curiosità di contattarlo e per questo ho deciso di dimenticare il primo incontro, se si può chiamare incontro un mezzo pomeriggio trascorso a chattare.
“Tu sei il grande rimpianto della mia vita.”. Non le mie parole, ma le sue.
Di tutte le ipotesi che mi si erano sovrapposte in testa, sia a sedici che a trent’anni, questa non si era mai palesata. A vederlo su internet, ingrassato, senza più occhiali, piacione, protagonista di tutte quelle classiche foto che si decide di mettere online per (di)mostrare di essere felici e realizzati, in un certo qual modo, ormai, anche meno interessante e brillante di come sembrava promettere a sedici anni, niente mi aveva preparato a questa possibilità.
Si era sposato da poco dopo una lunga convivenza. Mi raccontò tutto ciò che per anni avevo provato io per lui: gli ero simpatica, gli piacevo, era sempre stato silenziosamente attratto da me, forse innamorato, senza riuscire a osare di più. Ma soprattutto, ero stata a lungo il suo sogno erotico irraggiungibile, a maggior ragione considerato che non aveva mai avuto il coraggio di dichiararlo per paura di un rifiuto.
Non poteva rovesciarmi addosso tutto questo ora. Intendo, non avrebbe dovuto, era ingiusto. Anche se il rimpianto in qualche modo era reciproco, anche se ci eravamo resi conto entrambi che ciascuno per anni aveva atteso un segnale dall’altro, senza prendere l’iniziativa.
“Non possiamo vederci una volta, una sola?”. Giusto per vedere che effetto fa, diceva.
Sono stata tentata, ma me lo sono tenuto per me. A lui ho risposto semplicemente che ormai, a carte scoperte, sapevamo tutti e due “che effetto avrebbe fatto” e anche se mi pesava non aver capito nulla dei suoi sentimenti, all’epoca, volevo far funzionare la mia relazione e questo includeva decidere, anche se con uno sforzo razionale, di rifiutare le tentazioni.
Ci riprovò random, nei mesi successivi, quasi dimenticandosi il mio nome e chiamandomi solo Rimpianto, ma io mi ritraevo precisando che non trovavo onesto da parte sua esplicitare il rimpianto, soprattutto ora che era sposato, a suo dire, felicemente. D’accordo dichiararlo, svelarlo, forse, approfittare del tempo per uscire allo scoperto: ma solo se la questione si chiude nello stesso istante, solo se la dichiarazione automaticamente archivia ogni cosa. Ammetterlo era stato umano e comprensibile, reiterarlo era sondare il terreno e non mi piaceva più far parte di quel gioco che sperava di vincere, che sapeva che sarebbe stato facile vincere se solo io avessi avuto meno scrupoli. “Mia moglie la amo, ma tu sei il grande Rimpianto della mia vita”.
Qualche anno fa, tornando a prendere scatole di carte e oggetti conservati a casa di mamma, sono spuntati dei vecchi blocchi di appunti in cui avevo infilato, a mo’ di segnalibro, ritagli e cartuscelle che avevo deciso di catalogare come ricordi. In fondo a un blocco spuntò uno di quei rotoli accartocciati usati per il gioco della scrittura collettiva, quello in cui ci si passa i foglietti per aggiungere parole e frasi, senza sapere cosa venga prima e se funzionerà.
Riconobbi la mia grafia, mi presi del tempo per identificare le altre: la sua venne fuori per esclusione, posizionata in ogni foglietto, dopo la mia, nel turno dei passaggi. Con tratti incerti e scrittura un po’ nervosa: se un tempo ero mai stata in grado di leggerla, e molto probabilmente sarà anche per avere qualcosa di suo che avrò conservato i foglietti, ora mi sembrava tutto incomprensibile.

 

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Catemera