water and colours
Ieri notte, dal fondo del mio terrazzo, aspettavo di avere sonno, e per una volta mi sentivo orfana di segnali, quelli tipici dei miei mesi, quelli dovuti e attesi, alla fine dell'anno: quando mi sono girata a guardare la collina di fronte, tappezzata di pareti di pietra di case antiche, distratta, le luci si sono spente quasi tutte, quasi sincrone.
Quando mi riaccendo, la ragazza è al sole, come me, ma non aspetta come me.
Ha finito di aspettare. Le persone per lei sono ridiventate gente, e io non faccio certo eccezione: lei invece per me resta persona, femmina e donna, nonostante gli occhi abbiano perso colore, non meno dell'ultima volta che ne avrà dato ai capelli, o alle guance.
La luce in quegli occhi spenti recita a memoria tutto il suo passato, sgranando il rosario di un atto di dolore personale eppur poco originale.
Un ragazzo che aspetta di salire sul treno si accende una sigaretta, la guarda, non gliela offre. La ragazza si volta, chiedendosi se esista qualcuno in grado di ignorare le apparenze e applicare una pura umanità.
Io non fumo, figlia mia, ma ho una quantità di accendini che spesso offro e addirittura lascio ai fumatori. Non posso offrirti qualcosa da accendere, però. E mentre salgo sul mio treno, ti lascio perché devo, ma ti seguo nella tua voglia di una storia, di un inizio e soprattutto di una fine. Ti vedo parlare con qualcuno che credo tu conosca, perché inaspettatamente sorridi; e invece, quella donna si allontana e tu ritorni spenta.
Ora che non ce l'ho più davanti, quella ragazza senza fumo, rivedo mentalmente l'elenco incompiuto delle sue espressioni, gli sguardi non indirizzati a me, le occhiate lanciate per aria veloci e irrequiete. Prima l'ho sentito, che ogni volta che mi hai guardato avresti voluto chiedermi qualcosa, foss'anche solo quella fatidica sigaretta: mi spiace, non sono la persona giusta, e non solo per te.
Quando poi mi stendo sul sedile del vagone e separo definitivamente pensieri da emozioni, mi distraggo al punto da non rendermi conto di quanto poco ci voglia a riempire il treno, e solo allora comincio a registrare le voci e le disgrazie. È la seconda volta oggi, tra parentesi, che qualcuno accanto a me storce il naso schifato per il passaggio di uno straniero, o di uno straniero apparente. Un ragazzo nero si è appena beccato in faccia a voce alta un che puzza ma stamattina una famiglia marocchina aveva lasciato correre sulla bocca troppo aperta di una romana sguaiata un non ce la faccio più co' 'sta gente seguito da rotear d'occhi. Io mi ero girata verso di lei e l'avevo fissata, lei aveva raccolto, ma si era sentita troppo forte per la presenza dei suoi due amici, quindi aveva scelto di ignorarmi. Eppure ero stata severissima, però, così severa che si erano zittiti tutti e tre in un sol colpo. Saranno le radici austroungariche unite a una generosa dose di cazzimma napoletana. I mistosangue riescono sempre bene.
In fondo alla giornata un graffito nuovo, sulle mura della stazione, riesce a riconciliarmi col rientro, come quando scoprii per la prima volta Welcome to Romayork: qualcuno ha deciso di salutare chi entra dentro la città di Napoli con un semplice bellissimo Welcome to an antifascist city.
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