Where is everybody?
Il rollio soffice degli ammortizzatori della navetta mentre parte dall'aeroporto mi ripaga del rollio sbagliato con cui siamo atterrati. I sorrisi promozionali inutili spalmati sull'edificio di fronte al finestrino non promettono niente di buono. Solo le calde luci arancioni notturne mi distendono la pelle delle tempie.
Quanto tempo è che ho perso il contatto tra dentro e fuori, tra la parola e l'emozione?
Non importa. Sono sempre là, ibernate per futuri utilizzi. I ringraziamenti a questo punto sono d'obbligo. Sei anni fa in un periodo in cui ero prossima all'esplosione, o forse dovrei dire implosione, scrissi di seguito, di getto, due cose. Chiamarle racconti è fuori luogo, chiamarle pagine di diario mi sembra ridicolo. Nella prima prendevo la carta vetrata e me la premevo addosso per togliere tutte le sovrastrutture fino a farmi sanguinare, ma anche far uscire quello che davvero avevo dentro, quello che per me valeva la pena gli altri conoscessero di me. Quello di cui andare fiera. Quello di cui non andare fiera ma per cui ero pronta a difendermi e a battermi. Questo pezzo cominciava con io perché era l'unico strumento per costringermi a mettere una qualsiasi parola dopo il pronome, verbo, sostantivo o aggettivo. Il secondo pezzo somigliava in superficie a un racconto erotico e per questo fu guardato, scrutato, giudicato, incompreso, mentre per me erano solo appunti di un linguaggio (ancora a me parzialmente ignoto) di comunicazione con gli altri esseri umani, un modo per rivedere me stessa insieme agli altri e non sentire sempre una piccola razione di colpa per come era andata a finire con ciascuno. Un modo, sul lungo tempo, per fare pace con me stessa. Rivestendosi di una forma pericolosa, ha rischiato, e con tanti ha perso. Il rumore che hanno generato questi due pezzi dentro di me, sicuramente più assordante del rumore che hanno davvero fatto le reazioni sbagliate, non si è estinto del tutto. Ma l'eco comincia a poter essere ignorata.
Altrove, altri momenti: il rumore del sesso, quello sì che mi preoccupava. Ero convinta di poter essere sentita da tutte le stanze della casa, e non è che all'epoca il mio ragazzo fosse un grandissimo amante ma mi ero fatta l'idea che tutti i nostri rumori bisbigli lamenti e gemiti si sentissero e il giorno dopo guardavo gli altri inquilini della casa in cerca di tracce, di segnali, di indizi del fatto che avessero ascoltato tutto. Ridevo di me stessa ma era un pensiero automatico. Non so perché mi sia tornato in mente, forse perché cerco continuamente residui di quella che ero due, cinque, dieci anni fa, e qualsiasi piccolo episodio mi sembra lontanissimo, muto. Soprattutto inutile. Un'identità inattuabile, senza luogo geografico né mentale.
Essere straniera mi scagiona, mi solleva, mi azzera le colpe e i doveri, mi fa sentire l'unica libertà possibile, quella dell'assenza o meglio della falsa presenza; essere uno straniero in terra straniera è l'unico modo per riappropriarmi della mia identità, che sia dovuto a uno spostamento da una casa altrui a una mia, da una città del nord a una del sud, da una nazione all'altra; essere perennemente straniera è la scusa migliore che ho potuto inventarmi in tanti anni di fuga, ad ogni sessione di trasloco vero o falso, dopo ogni accoglienza che non si è mai tramutata in radicamento. Essere straniera in terra straniera mi costringe ogni istante a ricordarmi chi sono, mi costringe più del solito, più del dovuto, più di quanto faccia la gente normale, più di quanto facessi io fino a quando straniera non lo ero ancora. Mi impone di non dimenticare niente di me, che è forse il peggior scotto che una come me potesse pagare.
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