Catemera

tutto quello che scrivo

una cosa al giorno per non perdere l'abitudine

Otto minuti per decidere di parlare, di fermare il nodo alla gola, di scomparire senza smettere di esistere.
Sette minuti per scegliere le parole, per guardare le mie dita e fermare lo scoppio che potrebbe aprire un nuovo capitolo.
Sei minuti sono già passati e non posso contare più velocemente anche se dentro qualcuno vorrebbe farlo.
Cinque minuti per fermare la corsa delle dita e quelle del cuore che pompa.
Quattro minuti non raccontano ancora niente di me e sembrano aver raggiunto quasi lo scopo.
Tre minuti dovrebbero essere sufficienti a ricordarmi il mio nome, e cosa avevo guadagnato con la fatica del dolore.
Due minuti mi restano allo scoccare del traguardo di una prima calma.
Un minuto, per dire che non è colpa di nessuno, è stato merito nostro, non cambierei nulla.

Catemera, 24/12/2011 - 22:58

Quel grido. Quel grido mi copre tutta, dalla testa ai piedi. Smetto di pensarci e lui vuole pressarmi, vuole aprirmi, vuole diventare me. Non sono io la fonte, ma vuole diventare parte di me. Vuole farmi male. E io che cerco in tutti i modi di non farmene. Ho congelato tutte le parti di me accuratamente, per evitare che accadesse, per evitare che mi facessi anche inavvertitamente del male. Non ci sono riuscita. Quel grido è dietro di me e potrebbe raggiungermi e potrebbe diventare me.
Non voglio dolore, ma mi hanno sempre detto che se mi sporgo troppo, è una questione fisica, la testa pesa di più. Per cambiare dovrei scegliere definitivamente di immaginare. Immaginare le storie che mi rendono felice, che mi emozionano, quelle che viste altrove vorrei fossero mie. E però se ci provo, da me non escono. Io sono quello nella foto, vedi: il secondo da sinistra, in piedi. Mi si vede appena, ti devi concentrare. Sono dietro, vedi, dietro, e dietro voglio stare. Non ricordo più quando ho deciso di stare dietro. Ma mi sono stufata.

Catemera, 19/12/2011 - 11:05

A furia di guardare cose in lingua originale, certi concetti cominciano a sembrare molto più semplici da esprimere in lingua inglese. Overreacting mi sembra una parola bellissima. Odio l'inglese ma devo ammettere che ha una capacità di sintesi a volte sconosciuta alla lingua italiana, che però ha il pregio delle sfumature.
A volte nella testa comincio frasi in inglese e mi blocco solo perché non immagino a chi dovrei indirizzarle, formulate così. No matter what, devo finire la frase che ho in testa. Forse a volte mi sembra più naturale dirle in inglese perché parlare in un'altra lingua mi dà la sensazione di condividere un segreto con qualcuno, così come una volta dissi al telefono Je vais parler avec toi per non far capire a chi mi stava davanti che l'argomento in questione sarebbe stato lui. I need to talk to you but don't worry. Parlare in modi diversi dal solito e in una lingua che non tutti  possono capire è come creare un'intimità con qualcuno, ci vuole un attimo, dentro o fuori, con me o con gli altri. This has always been the way to get closer to someone. But, since I fail, probabilmente non serve a molto. Perché per quanto mi manchi il contatto fisico, l'attrito, il calore condiviso con un altro corpo, l'aggancio mentale, la battuta repentina, occhi negli occhi, ci siamo capiti, don't say a wordit's what I miss most of all.E dal momento che non posso reagire a un vuoto di cui sono responsabile, I just can overreact, parlando in inglese per far capire solo a me.

Catemera, 14/12/2011 - 20:29

Oggi vorrei spegnermi e riaccendermi all'inizio di un miglioramento. E invece no, rimango qua ad aspettarti perché penso abbiamo cose da dirci e vorrei sentirle tutte. Resto in piedi, muta a cercare di identificare il nome di ogni mio desiderio, cercando di riconoscerli tutti per riuscire a presentarteli. Ricordi quando eravamo tristi e seduti in fondo al letto, ce ne stavamo abbracciati senza guardarci in faccia, aspettando l'affievolirsi di un dolore? Non era così male in fondo.
Ascoltavo il sangue sotto la pelle, il battito indeciso e il respiro colmo d'ansia: mi sembrava tutto un pulsare, a causa del silenzio. Fissavo la mia mano all'incavo del tuo gomito senza mai diminuire la pressione, tu lo facevi con la mano sul mio collo. C'era quella specie di tregua passeggera, fatta di un giorno forse due in cui la complicità vinceva sul disagio.
C'era infine la consistenza setosa del tuo pullover che mi dava la sensazione volessi sfuggirmi, e mi aggrappavo di più, fino a farti male, fino a farti fuggire davvero. E il fatto è, non pensavo fosse simbolico.

Catemera, 13/12/2011 - 15:08

Quando guardavo la mezza luna che pretendevo di chiamare di profilo non stavo ragionando in tre dimensioni. La luna di profilo si nasconde oltre che dimezzarsi. La luna di profilo è una fetta che non racconta nulla, è un richiamo che comincia appena ad esporsi, per poi riscivolare tra le nuvole di una serata addormentata tra i ronzii.
La prima metà della luna mi consigliò erroneamente di darle questo nome, di profilo, perché pensavo di essere già a buon punto. Ricordo di aver detto 'se non sai qual è il profilo migliore è come non averlo' e pensavo a metà luna.
Restai ferma in attesa della seconda metà. Chiedevo speranze, volevo assaggiare i segreti e mescolarli coi miei, e dimenticarne l'origine. Sapevo di poterla affrontare, gestire, riscattare. Ma la sua velocità di rotazione era maggiore della mia: appena si sentiva rincorsa, scoperta, denudata, andava avanti di un grado, e io indietro di due.
La terza metà della luna è vivace, coraggiosa, battagliera e solare. Per questo, ne sono sicura, non sarà mai visibile: fa concorrenza al sole, ne porta addosso le tracce. Ha voglia di mostrarsi, ma ha bisogno della prima metà per farlo, e quindi la rincorre in un eterno affanno, che rende impossibile accorgersi della sua presenza.
L'ultima metà vorrebbe essere chiamata quarto, in tutti i sensi, per tutti gli occhi: ma è troppo complice della prima per averne diritto. L'ultima metà, sospetto, è quella che ha preso tutte le mie metà e le ha condannate a divenire quarti, con i loro spigoli, il loro equilibrio instabile, i loro lati taglienti. E la mia luna ha finito per essere uguale a tutte.

Catemera, 08/12/2011 - 22:58

È come quando qualcosa si rompe, un lenzuolo si strappa, un piatto urta nel lavandino perché scivola tra le mani e rimane sbeccato. Anche le certezze possono subire incidenti, e rimanere da quel momento in poi storpie o non del tutto sane. In questo modo sono meno salde. Continui a usare il piatto sbeccato, la tazza a cui è caduto il manico, la ciotola che si sta crepando e prima o poi si spaccherà in due. Non ti accorgi che le rotture si sommano e rendono instabile tutto il mondo attorno.
Anche dalle persone non ho avuto tempo di riprendermi. C'è chi mi ha sbriciolato la sicurezza nelle mie scelte, accusandomi di scegliere troppo, e prevaricare, chi ha volutamente minato la bellezza che avevo finito per vedere dentro e fuori di me. Non sono più stata in grado di riprendermi, non ho ricostruito quei tasselli e ho navigato sulla zattera dei rottami.

Ieri notte cercavo di capire perché, stesso letto, stessi cuscini, stesso materasso, la mia camera mi sembrasse così poco accogliente, il letto così respingente e freddo. Poi ho capito che non volevo vedermi addormentare nello specchio di fronte, quello dell'armadio. Non volevo correre il rischio di perdere la ragione a fissare i miei occhi ciechi nel buio. Non guardo mai gli specchi di notte, mi spaventa la mia immaginazione, mi ha fatto troppi scherzi durante l'infanzia.
Ho cercato un modo familiare per addormentarmi, mi sono guardata le dita, le mie proverbiali dita, ora trascurate e rivestite di pelle così secca da essere irriconoscibile. Volevo che le mie mani mi parlassero di me, e lo facevano nel modo peggiore: rivelandomi quanto mi stia abbandonando da sola. Mi sono addormentata, come spesso accade, pensando a qualcosa da scrivere, qualcosa che lì per lì sono sempre troppo pigra per correre ad appuntarmi, ingenuamente convinta che lo ricorderò al risveglio, qualcosa che ovviamente stamattina avevo perso, avevo rabbiosamente dimenticato, e ho invocato a lungo. Mi sono addormentata dicendomi che sono in grado di far andare le cose meglio, e ho deciso che volevo sognare. Ma nel sogno mi allontanavo da casa fino al punto da dimenticare volontariamente la strada del ritorno.

Catemera, 06/12/2011 - 22:06

La tua felicità non è la mia, ma un po' della mia infelicità potrebbe essere la tua. Non siamo mai stati fratelli e non saremo mai altro ma pensavo tu avessi un obbligo nei miei confronti. Leggendo le tue parole, guardando i tuoi occhi e ascoltando la tua bocca non vedo traccia di questo. Esposta su un muro senza protezioni, sono alla mercè di coltelli, frecce, occhiate e anche sputi. Nessuno dei quali potrebbe cambiare il bisogno di essere normale, alla fine dei giorni in cui denuncio la mia totale estraneità ad ogni norma.
Perché sembri aver dimenticato tutto? Non mi sono ancora spenta del tutto. Ma per le strade, in mezzo alla gente, ho ancora la percezione ovattata dei sogni, raccolgo frammenti di conversazioni, fotogrammi di sguardi, movimenti come coreografie, e non riesco a fare a meno di chiedermi se tutto continua a esistere anche in mia assenza, o se quel che vedo non sia prodotto malato della mia mente, irreale come cercare di parlare agli attori di un sogno.

Non ti rendi conto che ho meno di te perché, semplicemente, non ho te?

Catemera, 04/12/2011 - 18:26

Le parole quando escono fuori in realtà scendono, scendono fuori dalla bocca, si sporcano, vacillano e cadono a terra. Le raccolgo e te le consegno ma la maggior parte delle volte mi sbaglio, inciampo, le rompo e alla fine te le lascio, ma sono sbagliate. In quel momento vorrei essere trasparente, e smettere di essere guardata. L'unico momento in cui vorrei essere femmina, perché con lo scudo femminile posso difendermi. Perché con lo scudo femminile ho il diritto di essere debole, invece di indossare quello maschile e attaccare, e faticare finché non ho finito, finché non sono certa di essere al sicuro. The more I get close to what I want, the more I run away. Ma non è tirarsi indietro. È rifiuto di qualcosa che non posso avere nel modo in cui voglio, nella misura in cui avrei bisogno. Al crescere del bisogno di contatto, del bisogno di affetto, di persone, sviluppo un comportamento respingente. La voce canta e le parole si attorcigliano su se stesse.
Una volta tra un trasloco e l'altro ho trovato in un libro della parole piccolissime, ma così piccole che quasi stavano cascando in terra. Le ho prese in mano, le ho srotolate, e mentre le toccavo ho sentito che erano mie, e che non potevo abbandonarle in quella casa. Poi srotolandole ancora ho sentito che erano ancora un po' sue e che era rimasto con me, e che almeno una di quelle cinque lettere era ancora nostra, anche se la carta si stava distruggendo. E ho sperato che anche i silenzi di cinque lettere avessero un persempre.

Catemera, 03/12/2011 - 22:55

Non ho mai perso la maledetta abitudine di appuntare mentalmente tutto, di elencarmi ogni giorno cosa devo fare indipendentemente dalla priorità, dalla gravità, dall'importanza. E così le mie liste scritte e verbali diventano enormi e vengono abbandonate. E la relatività scompone tutti gli ordini di cose: una cosa dimenticata, ma di priorità inferiore, finisce per farmi sentire in colpa, mentre una cosa urgente e importante trascurata anche a lungo comincia a far parte dei doveri che finirò per abbandonare, mio malgrado, con un senso della responsabilità marcio e stravolto.
Ma la categoria peggiore sono i doveri periodici. I doveri periodici e quelli intimi, personali, naturali, sani. Ricordati di lavarti, ricordati di nutrirti, ricordati di proteggerti chiudendo la porta la sera. Quelli che dovrei scrivere su un fottuto pezzo di carta ogni giorno e se anche li cancellassi, la mattina dopo si riscriverebbero magicamente da soli, ricordandomi che sono sempre perennemente periodicamente inadempiente.

Più ci rimugino più mi sembra diventare lentamente un meccanismo metaforico. Mi immagino doveri verso le persone, verso le cose, verso me stessa, mi immagino sentimenti e affetti che non basta affrontare una volta, che richiedono impegno continuo, che ci vorrebbero sempre vigili e sempre al cento per cento delle nostre risorse, mi vedo di fronte a delle prove da superare sempre, come se non fossero mai compiute, come se ogni traguardo difficilmente raggiunto non fosse altro che uno step di qualcosa senza una fase finale, serena, tranquilla. Risalire dal baratro doveva solo abituarmi a compiere gli sforzi necessari alla sopravvivenza, non autorizzarmi a concedermi una sosta. Posso forse vivere di quella spinta ma prima o poi la gravità mi pretende giù attraverso l'acqua e senza un continuo vitale slancio verso l'alto, aver affrontato il baratro non sarà servito a nulla. Nessuno ha diritto a vivere di rendita.

Catemera, 01/12/2011 - 15:43

Ho perso il conto dei tempi sospesi. Quando cominci a baciare qualcuno e nel giro di qualche istante è passata mezz'ora di baci e ti aggrappi alle sue ginocchia e però sarebbe ora di ricominciare a baciarlo. La sensazione più comune che mi rimane nel quotidiano è l'accumularsi di sensazioni immaginate. Immaginare di conficcare le unghie in un jeans, immaginare il rumore che fa il jeans, immaginare il fastidio delle unghie che strusciano, immaginare la differenza tra caldo e freddo quando finalmente toccano la pelle, i peli delle gambe, il nodo delle ginocchia. Ricostruire in testa le venature degli occhi, di un paio di occhi qualsiasi, sentire battere il cuore spaurito quando ad ogni istante le pupille tremolanti si voltano a sinistra a destra a sinistra e ancora a destra con la stessa fragilità con cui un uccello finito per sbaglio in casa accetta di farsi prendere tra le mani e prima di morire d'infarto si fida e si fa liberare. I tempi sospesi dei pomeriggi passati a chiacchierare o ad ascoltare musica rendendosi conto del trascorrere delle cose solo perché si fa buio e le luci cominciano ad accendersi. Odio l'inverno che si avvicina anche se per ora mi promette di rimanere un po' più caldo, odio il freddo che dovrò fronteggiare perché l'unico motivo per me per riuscire a superare il freddo è ucciderlo insieme al caldo di qualcuno. Odio la mia camera da letto fredda perché non basto io a riscaldarla, e le lenzuola cedono alla mia temperatura solo a notte fonda, loro cedono ma io non mi arrendo.

Catemera, 27/11/2011 - 17:09

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