Catemera

tutto quello che scrivo

una cosa al giorno per non perdere l'abitudine

Pretend, please, just for a moment, you could say the words coming up from your soul to everyone. Imagine, pretend they could reach anyone. Act as if you were invincible, unbreakable, eternal. Look at yourself as if you're playing some role, maybe weird, but still a role. Behind the role you're not safe, you know it, don't you? Now you can tell him you love him, you can tell her you love her, you can choose not to talk to him, you can be whatever you want. You have to know I am here to protect you, because we are two but I am part of you, and I want to survive as much as you do. Talk to me and tell me everything you want to say to everybody else. Because I heard you crying, and it hurts me. Any bloody word you're not saying now will dig a wound deep inside of you. Don't let yourself do this, again. I'll promise your words are not going to hurt anybody, even if you eventually shout them out. You once wrote I love you, whoever you are, wherever you are. I'll never stop loving those words. I know you need somebody to love, but unless you get in your mind the person you're waiting for is you, you'll never find someone else who will really do.

Catemera, 07/03/2014 - 21:38

Esce di nascosto sul balcone per vedere chi è che ha fatto rumore spostando le sedie sul terrazzo.
Sono io quella che ha fatto rumore. Non si trattiene: "Dio mio come sono diventati lunghi i tuoi capelli". I miei sensi rispondono con un "se fossimo ancora amici potresti perfino toccarli" ma la mia immaginazione si ferma sulla soglia del dolore, perché non siamo più amici da così tanti anni che nemmeno ricordo il conto totale. Non mi ha rivolto la parola ed è meglio così.
Poi, solo qualche minuto dopo ha già cambiato volto nome e storia, mentre ne sfoglio le foto, non foto con lui dentro ma foto scattate da lui, sempre lontano, sempre estraneo, sempre non più amico: non è più sul mio terrazzo o sul suo balcone ma solo nella mia testa, è lui che mi ha insegnato a innamorarmi delle mie foto, dopo che lo avevo fatto con le sue. "Nemmeno tu vuoi toccare i miei capelli? Tu lo facevi. Amavi i miei capelli e la mia bocca.". Ora i miei capelli sono più morbidi e la mia bocca più dura, se li guardi insieme. Devi saperlo che i miei capelli possono diventare più crespi e la bocca si fa facilmente sciogliere, altrimenti ti fai ingannare: lui lo sapeva e superava il test ogni volta. Il riassunto di quel che sento di lui e per lui sono una mano piatta sulla gola e l'altra sulla nuca con le dita ben incastrate nei capelli, strette forte dentro ai ricci per non farli scappare, e qualche decibel molto basso in un orecchio.
Sono sempre riuscita a sentire tutti i suoni troppo bassi per gli altri, ma devo ancora imparare ad ascoltare le parole troppo forti per me.

Catemera, 22/09/2013 - 10:16

to love more, or maybe less, to laugh at people using own eyes, to hate until you hurt and not just until you get hurt, to touch and to press more and more, so that maybe something will stay imprinted in your fingertips the day he will never be with you anymore, to drive as you could tear your skin apart yet you could learn in a moment how to rule your tense muscles, to jump on the elevators while they're going down and to run the stairs up, to give hugs starting from the neck, to lift weights and mostly not measured in grams ones, to sleep supine, then not, then yes, then stretch your hands over though nobody is there on the other side, to deal with hardships as if there weren't any other, but above all to scream outside and not inside, because the inside screaming can break everything, whereas the outside just breaks silence [italian was here]

Catemera, 13/06/2013 - 19:49

Alle assenze mensili ho reagito, cantando e sfogliando controcanti su tutte le canzoni che potevo sperimentare; di notte, forse, col sonno e più spesso senza, la musica cessava e qualcuno rispondeva alla mia voce, e non avevo tempo di notare che anche le risposte venivano dalla mia voce, benché fossero per l'appunto risposte, non necessariamente soluzioni. Quelle assenze erano mute come silenzi anche se riempite da rumori. I rumori ce li mettevo io, li usavo come un metronomo, combinandoli con le pulsazioni, col respiro, con le ipotesi di vendetta.

Dice che il dolore autoinflitto è quello più sicuro, più facile da smaltire, più rassicurante, più gestibile: non ti sei chiesta come io faccia a vivere in tua assenza, non me lo hai chiesto, non me lo chiedo altrimenti dovrei recuperare una risposta che ho diligentemente eliminato. Ripensandoci, tutte. Tutte le risposte.

I'm medicated, how are you?

Non sono guarito, sono soltanto medicato, dopo aver buttato in ogni apposito cassonetto ciascuna parte marcia.
Ora vorrei soltanto andare avanti, smettere di immaginare le tue dita sottili abbinate alle tue vene, smettere di far finta che tu non sia stata bella quanto io avevo sempre desiderato.
E poi vorrei crescere, cioè smettere di odiare come difesa.

Catemera, 05/04/2013 - 17:04

In piedi, appoggiato alla parete del treno, nonostante il freddo ho fatto una corsa per non rimanere chiuso fuori, e ora ho il fiato corto e il caldo accumulato mi gonfia le vene. Rimango a fissarle ipnotizzato come sempre. La potenza del mio sangue è la stessa della mia voce, e della mia durezza maschile, che notano tutti i passeggeri, quando un paio di minuti dopo, in ritardo, siamo ancora fermi, e inveisco contro il capotreno, attirando l'attenzione di tutto il vagone. Fossi stata femmina il mio tono sarebbe stato mangiato dal volume.

La pioggia ha smesso di disturbare, lasciando i tetti di questa città bagnati e lucenti sotto i raggi di un sole riemerso. Mi lascio accecare, non solo gli occhi. Il primo tratto percorso sui binari, all'uscita dalla stazione, accarezza piano il panorama sul mare più noto del mondo, le sue isole, le luci, dandomi il tempo di intrufolarmi nelle case, nei balconi, nelle storie, in tutte le attese inutili. Accanto ai tetti gelatinosi, riflette il sole una piscina piena di acqua, verosimilmente solo piovana in questi duri giorni d'inverno.

Quando mi ritrovo ad essere parte di una città, scruto gli occhi della gente sentendomi invisibile e sperando di rimanerlo, per trattenere i pensieri dentro di me mentre metto a disposizione, di nuovo, ancora, parte di questo sangue orgoglioso che non scorre, ma si fa scorrere.

Catemera, 16/01/2013 - 21:54

Ieri notte, dal fondo del mio terrazzo, aspettavo di avere sonno, e per una volta mi sentivo orfana di segnali, quelli tipici dei miei mesi, quelli dovuti e attesi, alla fine dell'anno: quando mi sono girata a guardare la collina di fronte, tappezzata di pareti di pietra di case antiche, distratta, le luci si sono spente quasi tutte, quasi sincrone.

Quando mi riaccendo, la ragazza è al sole, come me, ma non aspetta come me.
Ha finito di aspettare. Le persone per lei sono ridiventate gente, e io non faccio certo eccezione: lei invece per me resta persona, femmina e donna, nonostante gli occhi abbiano perso colore, non meno dell'ultima volta che ne avrà dato ai capelli, o alle guance.
La luce in quegli occhi spenti recita a memoria tutto il suo passato, sgranando il rosario di un atto di dolore personale eppur poco originale.
Un ragazzo che aspetta di salire sul treno si accende una sigaretta, la guarda, non gliela offre. La ragazza si volta, chiedendosi se esista qualcuno in grado di ignorare le apparenze e applicare una pura umanità.
Io non fumo, figlia mia, ma ho una quantità di accendini che spesso offro e addirittura lascio ai fumatori. Non posso offrirti qualcosa da accendere, però. E mentre salgo sul mio treno, ti lascio perché devo, ma ti seguo nella tua voglia di una storia, di un inizio e soprattutto di una fine. Ti vedo parlare con qualcuno che credo tu conosca, perché inaspettatamente sorridi; e invece, quella donna si allontana e tu ritorni spenta.

Ora che non ce l'ho più davanti, quella ragazza senza fumo, rivedo mentalmente l'elenco incompiuto delle sue espressioni, gli sguardi non indirizzati a me, le occhiate lanciate per aria veloci e irrequiete. Prima l'ho sentito, che ogni volta che mi hai guardato avresti voluto chiedermi qualcosa, foss'anche solo quella fatidica sigaretta: mi spiace, non sono la persona giusta, e non solo per te.

Quando poi mi stendo sul sedile del vagone e separo definitivamente pensieri da emozioni, mi distraggo al punto da non rendermi conto di quanto poco ci voglia a riempire il treno, e solo allora comincio a registrare le voci e le disgrazie. È la seconda volta oggi, tra parentesi, che qualcuno accanto a me storce il naso schifato per il passaggio di uno straniero, o di uno straniero apparente. Un ragazzo nero si è appena beccato in faccia a voce alta un che puzza ma stamattina una famiglia marocchina aveva lasciato correre sulla bocca troppo aperta di una romana sguaiata un non ce la faccio più co' 'sta gente seguito da rotear d'occhi. Io mi ero girata verso di lei e l'avevo fissata, lei aveva raccolto, ma si era sentita troppo forte per la presenza dei suoi due amici, quindi aveva scelto di ignorarmi. Eppure ero stata severissima, però, così severa che si erano zittiti tutti e tre in un sol colpo. Saranno le radici austroungariche unite a una generosa dose di cazzimma napoletana. I mistosangue riescono sempre bene.

In fondo alla giornata un graffito nuovo, sulle mura della stazione, riesce a riconciliarmi col rientro, come quando scoprii per la prima volta Welcome to Romayork: qualcuno ha deciso di salutare chi entra dentro la città di Napoli con un semplice bellissimo Welcome to an antifascist city.

Catemera, 03/01/2013 - 21:40

la tua voce si scolora e il tuo volto si fa meno intenso, perde di volume, si abbassa di volume, ha solo due dimensioni, e sono due dimensioni troppo piccole perché io le possa capire, sono due dimensioni che sfuggono ai miei sensi, sgusciano fuori dalle mani, non so più che odore hai, a volte sei solo un nome e delle parole che non si uniscono a prendere forma, e rimango orfana di quelli che erano i nostri sensi, mentre i miei rimangono in attesa, e sono poi gli stessi sensi oppressi dalla gente, tutta la gente che mi investe ogni giorno, le facce stanche delle sette di sera, i muscoli di chi lavora troppo, i sud più a sud di noi e i fuori troppo fuori per rimanere qui dentro insieme agli altri, che poi alla fine siamo tutti qua, per collassarci addosso, per collidere e scambiare i miei capelli biondi col tuo pigmento nero, le mie mani grinzose con la tua pelle tesa e unta, siamo tutti qua, non c'è distinzione, attraverso la strada, incrocio degli occhi troppo voraci, mi fermo, respiro, ascolto quest'organo che batte troppo forte e veloce e sembra voler scoppiare, e no, una volta tanto non è il cuore.

Catemera, 07/05/2012 - 22:53

Mi abbraccia una strada con troppo vento, ma che stranamente non mi infastidisce né raffredda.
- Signorì vi avverto io, non vi dovete preoccupare.
Sorrido, strizzo gli occhi, che poi lo so, finisco per regalare gesti intimi anche a definitivi sconosciuti, se penso se lo siano meritato. Sorrido e il vento tiepido mi fa lacrimare gli occhi, e spero che qualcuno me li veda anche se ho tutti i capelli davanti alla faccia. Mi piace fare la parte di qualcuno che non sono, mi piace pensare che la gente possa guardarmi e inventare storie e supposizioni.
Aspetto un po' di più, ma ne vale la pena. Sentirmi di nuovo in mezzo alle persone come se non avessi mai smesso di farne parte, come se il dolore accumulato potesse spegnersi al solo desiderio di farlo.
Infilo le mani nelle tasche dei jeans e cerco di vedermi e anzi di guardarmi: niente, posso solo sentirmi. Mi vedo negli occhi stanchi di chi mi incrocia, mi guardo in quelli curiosi di chi mi studia. Troppi dejavu si affollano davanti ai miei piedi, ma spazzo tutto via per non farmi sporcare dai ricordi sbagliati.
Sono pulita da me stessa, e pronta.

Catemera, 26/03/2012 - 21:44

Di questi pensieri ho solo un titolo una fine e una manciata di parole in mezzo. Somigliano a me. Ai miei silenzi, alle mie sospensioni. Certi mesi di certi anni non sono proprio esistiti, si sono annodati una volta, due, tre e questo ha reso difficile riaprire i discorsi quando sarebbero serviti, pronti, in mano, utili a qualcuno, forse a me. Certi mesi hanno preso delle derive crudeli, certi mesi sono stati il mese sbagliato. Qualche luglio avrebbe dovuto essere dicembre, qualche novembre sarebbe stato meglio se fosse capitato nel caldo prossimo al deserto di agosto, per passare inosservato. Di certi mesi conosco solo il nome e il numero dei giorni, per via della cantilena, no, non quella famosa, ma quella che ho costruito io, per ricordare ciascun anno cosa ho portato a casa, per cosa volevo fosse ricordato un posto, un momento, una persona. Ma di questi pensieri, come dei miei mesi, ho solo un titolo, un finale possibilmente a sorpresa e sospeso, e qualche parola in mezzo. La parola più presente gioca tra passato e futuro, comincia per I e finisce per O, e se dentro pare vuota è perché solo ora comincio a capire cosa significhi.

Catemera, 24/03/2012 - 20:27

Gerardo è un omone grosso e con le fessure degli occhi sottili, li tiene sempre strizzati in un'espressione allegra e positiva, non smette. Entra nel treno parlando a voce alta, ma non sta urlando, il suo è proprio un tono, è la sua voce, è la voce degli scugnizzi napoletani che cominciano a urlare da un basso all'altro all'età di tre anni, si urlano addosso le peggio cose e arrivati a quindici anni hanno esaurito le corde vocali, le hanno consumate, bisognerebbe sostituirle se si potesse, bisognerebbe cambiarle se non si avesse la certezza che anche le nuove poi avrebbero vita corta.
Gerardo occupa due posti del treno invece di uno, perché è un irrequieto, e per la maggior parte dei vicini di vagone è molto irritante, a volte anche per me, parla al telefono raccontando tutto, ripetendo spesso le frasi che la moglie gli urla nel cellulare, assicurandosi di aver capito tutto più volte; è davvero irrequieto, ma un irrequieto inconsapevole, come i bambini che non hanno avuto i genitori o degli animali non abituati o non domati.
Quando esce dal vagone, qualche fermata prima di me, attraversa il corridoio e incrocia i miei occhi, e mi sorride nello stesso istante in cui sorrido a lui, d'istinto, lui come me, senza pensarci, senza fraintendere, senza malizia, consegnandomi lo stesso sorriso mio, un sorriso che forse nessun altro nel treno e tra la gente potrebbe capire quanto sia normale, naturale, umano, mio suo e nostro, ma non per tutti.

Catemera, 10/02/2012 - 21:05

Cammino tra le rocce le persone sono rocce perché non ho speranze e o le frantumo o le devo scalare aggirare scavalcare senza entrarci e più che altro camminate camminate veloci sempre più uguali. Muri pisciati che al primo raggio di sole si allargano a dismisura, mura pisciate che inseguono me e i disattenti viandanti e mentre ci inseguono rimangono là per sicurezza per essere pisciati di nuovo, stasera, domani, quando sarà? Non lo so, lo sanno meglio loro. Poi quando mi siedo compio gesti inutili, gesti drammatici, movimenti teatrali, insceno storie che hanno senso solo se qualche casuale osservatore crede che siano vere e stamattina ho camminato per un intero viale zoppicando, e con una mano che stringeva forte la coscia, solo per sperimentare, solo per capire se attiravo l'attenzione di qualcuno per la strada e magari qualche commessa in pausa sulla soglia del negozio. E infine mi siedo, prendo posizione in uno spazietto rigorosamente al sole, mi rilasso e comincio a ruotare la testa da una parte, e faccio finta di guardare le persone mentre in realtà penso solo ai cazzi miei, o viceversa faccio per evitare sguardi e ignorare i vicini e intanto scruto e succhio e invento storie per renderli più interessanti, solo per far passare il tempo, solo per vedermi passare il tempo. È quando finalmente mi accorgo che in questo, per la prima volta in vita mia, non c'è traccia di malinconia o malumore, è allora che mi viene voglia di parlarne, di parlare a me stessa di cosa sono e sono diventata, oppure ero e non volevo più essere perché avevo gettato la spugna.

Catemera, 09/02/2012 - 20:54

amare di più, oppure di meno, ridere con gli occhi alle persone, odiare fino a fare male e non solo per farsi del male, toccare e premere di più che magari qualcosa rimane impresso nei polpastrelli anche quando lui non ci sarebbe stato più, guidare a squarciapelle e imparare subito a governare i muscoli tesi, buttarsi negli ascensori in discesa e per le scale in salita, abbracciare a partire dal collo, sollevare tutti i pesi e soprattutto quelli che non si misurano in grammi, dormire supina e poi no e poi sì e poi allungare le mani anche se non c'è nessuno dall'altro lato, affrontare tutte le fatiche come se non ce ne fossero altre, ma soprattutto strillare fuori e non dentro, ché dentro le urla rompono tutto, fuori rompono solo il silenzio [english is here]

Catemera, 06/02/2012 - 19:25

There's a moon on my face, ricopre metà del mio volto con la sua metà oscura, l'altra metà si sovrappone al mio quarto invisibile, quindi di me non si vede ancora niente e quello che si vede forse è dal lato sbagliato. Quello che vendi tu e mangi tu quasi quasi mi conviene, è solo sangue nelle mie vene. Hai delle parole messe da parte e sistemate in ordine e io l'ordine non lo capisco, né vedo un ordine in me, in noi, nel noi che rimane appeso alla soglia della porta a cristallizzarsi col freddo del desiderio smorzato. Io sono questa. Tocco le persone, mostro le mani, fisso negli occhi, cerco le dita e mi ci riscaldo. Mi avvicino, chi sei, cosa sei, un odore? Forse anche sì, intanto sei un momento congelato nelle mie narici. Mi avvicino di più, chi sei, un pensiero? Meglio se stai fermo, potrei sentirti e potresti non volerlo. Bilancia i miei sguardi con le tue paure, usa pure una fisica quantistica per dirmi d'improvviso quel che senti, io ci sono e sono quella che vedi, non ho più paura di sganciarmi dalla pancia dell'aereo.

Catemera, 01/02/2012 - 18:23

cum

Quando sei dentro rimani e riparti o riecheggi, sussurri delle cose, vorresti staccarti e prendere una distanza, ma io la distanza non la sopporto, mi scotta, mi ustiona col suo freddo, non mi prende alla gola e nemmeno alla pancia, mi lascia una chiazza rossa che non riscalda nessuno a guardarla, non muove me alla ricerca di te, non scuote te alla forsevoglia di me. Quando mi apri la testa e cerchi corrispondenze allora sì che sei dentro, mi vuoi, scarti i pezzi e preferisci turbarmi, hai passione da vendere ma per me è tutto gratis, ancora non so quando, ancora non so per quanto. Quando sarai di fronte poi vedrai come ti risponderò, vedrai le frasi e anche tutte le congiunzioni, perché non ci sono solo quelle che ti piacciono, ma anche quelle avversative, che contrappongono e legano i contrasti, e infatti siamo due contrasti legati da una negazione, da un avverbio, da una pausa di sospensione. Quando tornerai fuori io tornerò dentro e sul tavolo della scrivania troverò tutte parole abusate, articoli dimenticati, avverbi maldestri appoggiati e poco consumati, sentirò i secondi che ci vogliono a scandire tutte le frasi e proverò a incastrare le parole rimaste come uno scarabeo senza punteggio finale, il punteggio sarebbe solo lo zero se io e te ci compensassimo senza scomparire.

Catemera, 28/01/2012 - 12:07

il bello non si equilibra col brutto il piacere non supera il dolore e allora tabula rasa, would you like to drop table please? cancella ogni evento dal log così da evitare ogni traccia di reazione agli eventi passati, non esistono eventi passati, comincia tutto in questo istante così mi godo solo le cose belle, certo sono solo tre righe ma mentre lo dico diventano quattro e magari suona meglio, ricomincia il log eventi da ora anzi da domattina, ci sarà il sole, avrò lavato i capelli e depurato frigorifero e me da cibi e concetti scaduti, avrò fatto il mio dovere buttando tutto quel che è andato a male, avrò nascosto la polvere sotto il tappeto per essere sicura che all'esterno non traspaia emozione

Catemera, 24/01/2012 - 17:25

Quella sera di ritorno da casa di Sara, con Daniela alle spalle e non accanto, facemmo una sosta a un incrocio perché io mi sentissi ancora una volta chiamare panzer dei sentimenti, non c'era nessuno per strada, anzi credo ci fossero tante persone ma era come se i miei occhi rossi li avessi mostrati solo a lei, perché non avevo capito niente, perché mi ero sentita sbagliata, ed anche lei era sbagliata per me in quel momento. Metà del tragitto andò insieme, metà da sola, e la terza metà, quella che nessuno ha scoperto, è rimasta là a sentire le parole di rabbia che poi non sono riuscita a consegnare ad alcuno, al ritorno. Ho fatto quella strada che non conoscevo bene con i sensi automatici come se fosse stata la mia strada, e ho appoggiato i piedi su tutto il percorso come se non volessi davvero camminare, come se volessi direttamente volare a casa, ad una casa, a quella che non era la mia casa ma lo faceva benissimo. Gli occhi rossi sembrarono bruciati dal freddo, e quando mi stesi muta sul divano per finire la giornata in silenzio insieme a Guido, lui rimase a fissarmi con la garanzia del rispetto.

Catemera, 20/01/2012 - 12:21

La sera del ventisette novembre non sapevo più chi fossi. Con un'unica maldestra azione avevo insultato me, ferito qualcuno, disprezzato qualcun altro. Faccio finta che non sia mai accaduta ma la mia spietata trasparenza non mi lascia in pace. Fossi stata in una città di mare, sarei andata di fronte a lui a farmi schizzare, a farmi urlare contro, a farmi giudicare. E invece la mia punizione era vedere tutto nelle mie mani, sentire il peso della sufficienza e vedermi negato il diritto alla vendetta. Io mi sarei vendicata, avrei voluto. Ma tu mi avresti impedito di farmi del male per giustiziarmi.
La notte del ventisette novembre ho dormito solo quando ho infilato la mia guancia nella tua mano, sperando che tu riuscissi a sospendermi al punto da crollare. C'eri. Io no, ma tu sapevi dove andarmi a prendere.
Non sono più riuscita a togliermi quella x rossa stampata addosso, non c'è niente altro per cui mi condanni a tal punto: dopo la sera del ventisette novembre, mi hai preso con te, hai coperto quella x con la mano e mi hai accompagnato per tutte le strade della città fino a dimenticarne il nome.

Catemera, 07/01/2012 - 16:46

Ho attaccato la musica per cercare un ricordo. Che è l'unico modo che io abbia al momento per dire qualcosa, perché passato ne ho tanto, presente molto poco, futuro zero. Il finto tango mi mostra una fotografia in controluce davanti alla finestra del secondo piano e mezzo sulla strada più trafficata e calda di Firenze, quando stavo cominciando a illudermi di aver trovato la persona giusta e la mia ispirazione cercava di darle forma di musa guardandomi con quelli che presumevo fossero i suoi occhi. Avevo una sola bocca e non bastava. Aveva un solo corpo e non mi bastava. Aspettavo che le giornate portassero via il nostro scoprirsi e scoprirci, aspettavo che diffondessero quella tranquillità che deriva dal conoscere le risposte dell'altro, o anche solo immaginarle. Scendevo in mezzo alla gente per andare a spostare le macchine nel giorno di lavaggio strade e mi sentivo sana, anche se stanca e incompiuta. Facevo tanti giri per trovare posto e guardavo tutte le persone che incrociavano il mio sguardo. Ero tra gli altri e non me ne pentivo. Quel giorno caldo a casa dei suoi amici mi prese le mani e mi trascinò a darmi baci senza aspettare di essere solo, e sul terrazzo inumidito dall'estate la città buia illuminata forte mi sembrò qualcosa a cui potessi sperare di appartenere. C'era perfino la sua vecchia fiamma, forse ce n'era più di una ma mi sentivo sicura. Era una rivincita sulle mie insicurezze.
Tornammo a casa tardi, più tardi del solito, e la stanza aperta sul buio rumoroso della strada di notte ci sembrò piccolissima.

Catemera, 06/01/2012 - 14:39

la notte del concerto non avevo più patti con nessuno, non dovevo niente al mondo e dovevo tutto a te, non so se te l'ho dato, non se se te lo sei preso e basta, io ho controllato e mi sembra che nelle tasche delle giacche non sia rimasto niente, non è rimasto niente nella borsa che avevo quella sera, non è rimasta traccia del mio passaggio sulla porta che ha sentito il peso della nostra urgenza, non ha sentito niente nessuno anche se c'era il ragazzo accanto a noi che mi mangiava con gli occhi ed era ipnotizzato da come strusciavo il bacino su di te, avevo giurato di non fare niente ma nessuno aveva reclamato la mia fedeltà e nessuno l'ha mai più voluta, e allora perché avrei dovuto preoccuparmene? non c'è nulla che non andasse fatto a parte l'unico rimpianto della mia vita che appartiene più o meno agli stessi giorni, il rimpianto per cui ero così sporca che sono dovuta tornare pulita infrangendo la mia inutile fedeltà con te. ti ho consegnato la mia ultima fedeltà, che era tua, che era quella che davvero avevo calpestato con le mie cieche voglie, te l'ho ridata prima che fosse impossibile dartela, prima che si richiudesse su se stessa. se ne hai fatto qualcosa di diverso dal chiuderla a chiave non discuterò, non ci sarà altro scontro, non ho mantenuto con me le prove del patto, l'unico modo rimane trasmetterlo a voce, io posso farlo con te, forse potrò, forse potrei, forse non lo farò.

Catemera, 03/01/2012 - 16:01

L'atlante dei luoghi emotivi è quel libro abbandonato da qualche parte dentro di me, che richiede manutenzione per non finire in briciole. Gli basta poco, essere rispolverato ogni tanto: poi c'è questo muscolo del fuoco mentale che passa in rassegna i fatti e decide cosa comprendere al momento giusto, cosa lasciare da parte, come muoversi e quanto tempo attivarsi. Sempre attivo, sempre vigile, sempre potente. Ma oggi è spento, è come se guardassi davanti a me e non mettessi a fuoco con gli occhi. Ci sono delle caselle da riempire, delle domande a cui rispondere, dei passi da studiare, ma sembra attivo solo il pilota automatico, che impara le tabelline senza capirle, ripetendole a memoria.
Scorre immagini senza senso prese a caso dal mio passato, proponendomi un nesso, di solito, mentre oggi no: oggi aspetto ancora che si accenda il settore dell'analisi. Cerco di capire che avrà voluto dirmi con le passeggiate primaverili durante la merenda a scuola, che non erano passeggiate, ma non lo sapevo, e mi vedevo solo le galosce ai piedi insabbiarsi nei terreni incolti attorno alla scuola, che pomposamente venivano chiamati giardini, ma con l'erba così alta che ci si immergeva dentro. La maestra avrà pensato che ero una bambina problematica, mi ricordo di quando ci? mi? comunicò che se ne sarebbe andata via per un anno perché era incinta, e il tono era proprio quello che si usa con un bambino che si crede non possa capire, con qualcuno di fragile.
L'atlante dei luoghi emotivi ha un'immagine stampata che non si sbiadisce mai, di un bambino con gli occhi ridenti e intelligenti che avrei voluto fosse mio amico e potrei non incontrare mai più. L'atlante non mente, il muscolo del fuoco mentale qualche volta sì. Si è dimenticato di mostrarmi qualcosa, lo so, lo sento: raccolgo i nomi e me li porto a dormire.

Catemera, 29/12/2011 - 18:57

Pagine