Parole (in ordine)

Di questi pensieri ho solo un titolo una fine e una manciata di parole in mezzo. Somigliano a me. Ai miei silenzi, alle mie sospensioni. Certi mesi di certi anni non sono proprio esistiti, si sono annodati una volta, due, tre e questo ha reso difficile riaprire i discorsi quando sarebbero serviti, pronti, in mano, utili a qualcuno, forse a me. Certi mesi hanno preso delle derive crudeli, certi mesi sono stati il mese sbagliato. Qualche luglio avrebbe dovuto essere dicembre, qualche novembre sarebbe stato meglio se fosse capitato nel caldo prossimo al deserto di agosto, per passare inosservato. Di certi mesi conosco solo il nome e il numero dei giorni, per via della cantilena, no, non quella famosa, ma quella che ho costruito io, per ricordare ciascun anno cosa ho portato a casa, per cosa volevo fosse ricordato un posto, un momento, una persona. Ma di questi pensieri, come dei miei mesi, ho solo un titolo, un finale possibilmente a sorpresa e sospeso, e qualche parola in mezzo. La parola più presente gioca tra passato e futuro, comincia per I e finisce per O, e se dentro pare vuota è perché solo ora comincio a capire cosa significhi.

Catemera, 24/03/2012 - 20:27

Gerardo è un omone grosso e con le fessure degli occhi sottili, li tiene sempre strizzati in un'espressione allegra e positiva, non smette. Entra nel treno parlando a voce alta, ma non sta urlando, il suo è proprio un tono, è la sua voce, è la voce degli scugnizzi napoletani che cominciano a urlare da un basso all'altro all'età di tre anni, si urlano addosso le peggio cose e arrivati a quindici anni hanno esaurito le corde vocali, le hanno consumate, bisognerebbe sostituirle se si potesse, bisognerebbe cambiarle se non si avesse la certezza che anche le nuove poi avrebbero vita corta.
Gerardo occupa due posti del treno invece di uno, perché è un irrequieto, e per la maggior parte dei vicini di vagone è molto irritante, a volte anche per me, parla al telefono raccontando tutto, ripetendo spesso le frasi che la moglie gli urla nel cellulare, assicurandosi di aver capito tutto più volte; è davvero irrequieto, ma un irrequieto inconsapevole, come i bambini che non hanno avuto i genitori o degli animali non abituati o non domati.
Quando esce dal vagone, qualche fermata prima di me, attraversa il corridoio e incrocia i miei occhi, e mi sorride nello stesso istante in cui sorrido a lui, d'istinto, lui come me, senza pensarci, senza fraintendere, senza malizia, consegnandomi lo stesso sorriso mio, un sorriso che forse nessun altro nel treno e tra la gente potrebbe capire quanto sia normale, naturale, umano, mio suo e nostro, ma non per tutti.

Catemera, 10/02/2012 - 21:05

Cammino tra le rocce le persone sono rocce perché non ho speranze e o le frantumo o le devo scalare aggirare scavalcare senza entrarci e più che altro camminate camminate veloci sempre più uguali. Muri pisciati che al primo raggio di sole si allargano a dismisura, mura pisciate che inseguono me e i disattenti viandanti e mentre ci inseguono rimangono là per sicurezza per essere pisciati di nuovo, stasera, domani, quando sarà? Non lo so, lo sanno meglio loro. Poi quando mi siedo compio gesti inutili, gesti drammatici, movimenti teatrali, insceno storie che hanno senso solo se qualche casuale osservatore crede che siano vere e stamattina ho camminato per un intero viale zoppicando, e con una mano che stringeva forte la coscia, solo per sperimentare, solo per capire se attiravo l'attenzione di qualcuno per la strada e magari qualche commessa in pausa sulla soglia del negozio. E infine mi siedo, prendo posizione in uno spazietto rigorosamente al sole, mi rilasso e comincio a ruotare la testa da una parte, e faccio finta di guardare le persone mentre in realtà penso solo ai cazzi miei, o viceversa faccio per evitare sguardi e ignorare i vicini e intanto scruto e succhio e invento storie per renderli più interessanti, solo per far passare il tempo, solo per vedermi passare il tempo. È quando finalmente mi accorgo che in questo, per la prima volta in vita mia, non c'è traccia di malinconia o malumore, è allora che mi viene voglia di parlarne, di parlare a me stessa di cosa sono e sono diventata, oppure ero e non volevo più essere perché avevo gettato la spugna.

Catemera, 09/02/2012 - 20:54

amare di più, oppure di meno, ridere con gli occhi alle persone, odiare fino a fare male e non solo per farsi del male, toccare e premere di più che magari qualcosa rimane impresso nei polpastrelli anche quando lui non ci sarebbe stato più, guidare a squarciapelle e imparare subito a governare i muscoli tesi, buttarsi negli ascensori in discesa e per le scale in salita, abbracciare a partire dal collo, sollevare tutti i pesi e soprattutto quelli che non si misurano in grammi, dormire supina e poi no e poi sì e poi allungare le mani anche se non c'è nessuno dall'altro lato, affrontare tutte le fatiche come se non ce ne fossero altre, ma soprattutto strillare fuori e non dentro, ché dentro le urla rompono tutto, fuori rompono solo il silenzio [english is here]

Catemera, 06/02/2012 - 19:25

There's a moon on my face, ricopre metà del mio volto con la sua metà oscura, l'altra metà si sovrappone al mio quarto invisibile, quindi di me non si vede ancora niente e quello che si vede forse è dal lato sbagliato. Quello che vendi tu e mangi tu quasi quasi mi conviene, è solo sangue nelle mie vene. Hai delle parole messe da parte e sistemate in ordine e io l'ordine non lo capisco, né vedo un ordine in me, in noi, nel noi che rimane appeso alla soglia della porta a cristallizzarsi col freddo del desiderio smorzato. Io sono questa. Tocco le persone, mostro le mani, fisso negli occhi, cerco le dita e mi ci riscaldo. Mi avvicino, chi sei, cosa sei, un odore? Forse anche sì, intanto sei un momento congelato nelle mie narici. Mi avvicino di più, chi sei, un pensiero? Meglio se stai fermo, potrei sentirti e potresti non volerlo. Bilancia i miei sguardi con le tue paure, usa pure una fisica quantistica per dirmi d'improvviso quel che senti, io ci sono e sono quella che vedi, non ho più paura di sganciarmi dalla pancia dell'aereo.

Catemera, 01/02/2012 - 18:23

A. sapeva di rosso, perché i rossi hanno un odore rosso. Un po' acre, un po' dolce, pizzicava nelle narici e dovevo avvicinarmi per sentirlo, perché lo dimenticavo facilmente. Aveva una pelle chiara così morbida che il pizzicore del suo odore era quasi piccante al confronto.
B. odorava di uomo nel senso forse più banale che io immagini. Pelle scura e olivastra, naturalmente scottato dalla luce, sapeva di legno, di legno fresco, legno bruciato, legno pervaso d'incenso. Il legno prendeva un sapore acre di fragola in alcuni punti precisi, come il collo, il volto, le mani, ma sempre di legno si trattava.
L'odore di C. all'inizio non mi era chiaro. Era odore di femmina, era dolce, dolcissimo e un po' acre, come quello delle femmine, salatoacre degli umori, odore di latte. All'inizio lui era latte ma poi diventava uomo e cambiava odore, diventava odore di caldo, diventava carne cotta salata, dolce ma deciso, salato ma con picchi amari e forti. A volte l'odore era influenzato dal sapore, ed era sempre misto, maschio e femmina, com'era misto lui, com'ero mista io, ma non sapevo se lui sentiva su di me quello stesso odore misto.
D. aveva l'odore più perfetto che potessi sentire, gli ho rubato il profumo per ricordarmi di lui ma sotto il profumo c'era un odore di sale e unto, un odore di animale, di persona, di vissuto e praticato. Io l'odore di D. ho voluto dimenticarlo perché mi sarebbe stato più facile associarlo al profumo, quello che ho scelto di far diventare mio quando ha deciso che io sarei stata Jules.
E. ha sempre avuto profumo di bambino, odore di fiori e pelle delicata nel modo più assurdo a me noto. Non era odore di femmina ma odore di adolescente, odore di chi non ha ancora odore e mescola il latte con gli agrumi. E. riesco ancora a sentirmelo nel naso perché è l'odore più familiare che io possa mai aver associato a una persona che sulla carta non ha il mio stesso sangue.
Di F. l'odore non lo ricordo più. Più mi fisso un pensiero nella testa, più l'attenzione torna alla pelle sottile e al sapore salato del sudore che si asciuga, ogni dopo che mi è stato concesso di restare accanto a lui. Ma l'odore è stato cancellato dalla testa, per smettere di sentire, per permettermi di procedere, per lasciar spazio alla voce, al dialetto, a qualche parola senza rancore.

Resti, 30/01/2012 - 20:50

cum

Quando sei dentro rimani e riparti o riecheggi, sussurri delle cose, vorresti staccarti e prendere una distanza, ma io la distanza non la sopporto, mi scotta, mi ustiona col suo freddo, non mi prende alla gola e nemmeno alla pancia, mi lascia una chiazza rossa che non riscalda nessuno a guardarla, non muove me alla ricerca di te, non scuote te alla forsevoglia di me. Quando mi apri la testa e cerchi corrispondenze allora sì che sei dentro, mi vuoi, scarti i pezzi e preferisci turbarmi, hai passione da vendere ma per me è tutto gratis, ancora non so quando, ancora non so per quanto. Quando sarai di fronte poi vedrai come ti risponderò, vedrai le frasi e anche tutte le congiunzioni, perché non ci sono solo quelle che ti piacciono, ma anche quelle avversative, che contrappongono e legano i contrasti, e infatti siamo due contrasti legati da una negazione, da un avverbio, da una pausa di sospensione. Quando tornerai fuori io tornerò dentro e sul tavolo della scrivania troverò tutte parole abusate, articoli dimenticati, avverbi maldestri appoggiati e poco consumati, sentirò i secondi che ci vogliono a scandire tutte le frasi e proverò a incastrare le parole rimaste come uno scarabeo senza punteggio finale, il punteggio sarebbe solo lo zero se io e te ci compensassimo senza scomparire.

Catemera, 28/01/2012 - 12:07

il bello non si equilibra col brutto il piacere non supera il dolore e allora tabula rasa, would you like to drop table please? cancella ogni evento dal log così da evitare ogni traccia di reazione agli eventi passati, non esistono eventi passati, comincia tutto in questo istante così mi godo solo le cose belle, certo sono solo tre righe ma mentre lo dico diventano quattro e magari suona meglio, ricomincia il log eventi da ora anzi da domattina, ci sarà il sole, avrò lavato i capelli e depurato frigorifero e me da cibi e concetti scaduti, avrò fatto il mio dovere buttando tutto quel che è andato a male, avrò nascosto la polvere sotto il tappeto per essere sicura che all'esterno non traspaia emozione

Catemera, 24/01/2012 - 17:25

Quella sera di ritorno da casa di Sara, con Daniela alle spalle e non accanto, facemmo una sosta a un incrocio perché io mi sentissi ancora una volta chiamare panzer dei sentimenti, non c'era nessuno per strada, anzi credo ci fossero tante persone ma era come se i miei occhi rossi li avessi mostrati solo a lei, perché non avevo capito niente, perché mi ero sentita sbagliata, ed anche lei era sbagliata per me in quel momento. Metà del tragitto andò insieme, metà da sola, e la terza metà, quella che nessuno ha scoperto, è rimasta là a sentire le parole di rabbia che poi non sono riuscita a consegnare ad alcuno, al ritorno. Ho fatto quella strada che non conoscevo bene con i sensi automatici come se fosse stata la mia strada, e ho appoggiato i piedi su tutto il percorso come se non volessi davvero camminare, come se volessi direttamente volare a casa, ad una casa, a quella che non era la mia casa ma lo faceva benissimo. Gli occhi rossi sembrarono bruciati dal freddo, e quando mi stesi muta sul divano per finire la giornata in silenzio insieme a Guido, lui rimase a fissarmi con la garanzia del rispetto.

Catemera, 20/01/2012 - 12:21

La sera del 27 novembre, dopo la chiusura dei negozi, Roma precipitò nel silenzio.
Avevo i polpacci gonfi e stanchi per tutte le scale che avevo dovuto affrontare all'uscita del Quirinale.
Volevo piangere, e speravo di riuscire a cominciare in tempo, perché qualcuno mi vedesse e si preoccupasse per me. Ero preoccupata? Non credo ci fosse più nulla che valesse quel sentimento.
Avrei dovuto dirigermi alla fermata dell'autobus e invece la sorpassai, con tutte le mie borse e i miei pesi, e non mi accorsi di essere intontita finché non arrivai a casa. Cinque chilometri completamente a piedi, non tantissimi, semplicemente inaspettati.
Sotto casa, prima di entrare nel portone, sentii una voce bassa e promettente. Non sentivo dire il mio nome da quella voce da due anni, e la contrazione che ne seguì fu ingiusta, perché crudelmente uguale a quelle che preparano al sesso.
Leo aveva trovato il mio indirizzo ed era venuto a cercarmi, e non riuscivo a immaginare alcun motivo valido per un'azione così folle.
- Io l'ho lasciata. Finalmente.
Finalmente avrei dovuto dirlo io. Lo disse lui lasciandomi senza battuta.
- Cosa vuoi da me?
- Nient'altro che te. Se lo vuoi.
- Hai pensato di piombare qua senza nemmeno accertarti che fossi libera?
- Non lo sei?
- Non è questo il punto. Ti sembra normale venire qua a fare questa dichiarazione?
- Finalmente l'ho capito. Dovevo rischiare. Dovevo venire a dirtelo.
- Sì, che mi ami e mi amavi anche allora.
- E però tu non mi hai risposto.
Avrebbe potuto far un gesto romantico, buttare là un abbraccio da film, un bacio definitivo, una lacrima liberatoria. Invece mi mise una mano attorno al collo. Sapeva che mi avrebbe fatto capitolare. Provai a non baciarlo, provai anche a non accostarmi.
Due anni prima ci eravamo sentiti, ma forse quattro o cinque anni prima era stata l'ultima volta che ci eravamo visti.
Mi era mancato il suo odore, e il rumore che facevano le sue labbra quando avevano urgenza di bisbigliare qualcosa all'orecchio. Mi erano mancate le sue guance morbide con la barba appena fatta.
L'ultima volta che ci eravamo visti ero andata a casa sua prima di raggiungere gli altri con cui dovevamo uscire, e lo avevo assistito come una sorella mentre si faceva la barba, lo avevo consigliato su cosa indossare, ci eravamo scambiati gli ultimi abbracci, prove generali di quelli che non avevamo il timore di scambiarci in pubblico.
La serata era andata bene, ma non sapevo sarebbe stata l'ultima.
E ora che era venuto a cercarmi, avevo un conto di arretrati di intimità da pretendere, non c'era fretta, non c'era paura.
Prima di cedere e di sentire le mie labbra attaccarsi alle sue come fonte d'aria, mi vidi prendere le sue mani, senza capire le mie stesse intenzioni. Le allontanai da me pur continuando a carezzarle con le dita.
Sì, era lui che doveva gli arretrati a me, era da lui che volevo restituita l'intimità anticipata, la mia, quella di cui aveva abusato.
- Vieni con me.
Prese le mie parole senza stupore, solo come piacevole sorpresa.
Sempre a piedi, sempre col silenzio che il 27 novembre mi aveva offerto, lo portai in giro per le strade, con la scusa di mangiare un boccone insieme, ma in realtà con l'intento di stancarlo. Non gli permisi di prendere la macchina prima, non gli concessi di tornare in autobus dopo, né tanto meno in taxi.
A notte inoltrata tornammo al punto di partenza, casa mia, ma con addosso una serata insieme, fredda e calda, vecchia come le nostre e nuova come nostra soltanto. In ascensore, salendo al mio appartamento al quinto piano, gli presi la testa fra le mani per rubargli un morso dalla bocca. L'avevamo fatto, a volte, in passato, di sfuggire i baci morsicandoci gli angoli della bocca: ora era la mia voglia, e non la mia coscienza, a chiedermelo.
Una volta in casa, gli sottoposi la mia richiesta senza mezzi termini.
- Non succederà niente.
- Non è importante, non sono venuto per quello, ma per stare con te.
- No, non hai capito. Non succederà niente finché non sentirò che mi avrai restituito tutta l'intimità che ti avevo prestato.
- Non sono sicuro di aver capito.
Allora, lentamente, cominciai a mostrarglielo.
Gli tolsi il cappotto e appoggiai borsello e sciarpa nell'ingresso. Lo presi per mano e mentre attraversavo il corridoio premurosamente cominciai a spogliarlo. Lui sapeva di poter fare da solo ma ovviamente la sua attenzione era tutta nel cercare di capire le mie intenzioni.
Prima di raggiungere la camera da letto, mi fermai all'altezza del bagno, accesi la luce, lo spinsi accanto alla doccia.
Mentre l'acqua calda piano piano gonfiava di vapore le pareti, mi dedicai a spogliarlo tutto, con devozione, con un calore preparatorio, ma senza malizia.
- Ora ti fai la doccia, e io ti guardo. Così imparo a conoscerti.
Rimase in silenzio, ma senza imbarazzo, e non ce ne fu per niente, in realtà, nemmeno dopo, nemmeno i giorni dopo.
- Devo guardarti, scrutarti, farti mio. Devo avere tempo. Ti ecciterai? Può darsi, non mi importa. Ti vedrò eccitato. Nessun problema. Non è quello il punto.
Sotto il getto dell'acqua era semplicemente stupendo. Mentre lo guardavo era davvero mio, erano le mie regole in quel momento ma ci si atteneva consapevolmente e col desiderio di farlo. Ebbi il tempo di guardare ogni cosa che mi era stata negata, e non parlo del sesso. Parlo di pelle, di gesti, di ingenuità, di intimità.
Appena chiuse l'acqua gli tesi il braccio per accompagnarlo fuori dalla cabina e asciugarlo, io, nessun altro, senza permettergli di farlo da solo.
Ancora tremante di vapore, lo portai sul letto, per infilarlo così, nudo, sotto le coperte, e restituirgli calore. Mi concessi qualche istante per sfiorarne l'intero corpo al di sopra delle lenzuola, sindone emotiva che speravo si sarebbe conservata.
Infine, lo coprii il più possibile, spensi la luce, e accomodandomi vestita sopra le coperte, sul fianco, accanto a lui, riuscii per la prima volta a sorridergli con tutte le mie lacrime. Era ormai il 28 novembre, e il silenzio era finito.

Resti, 08/01/2012 - 00:43

La sera del ventisette novembre non sapevo più chi fossi. Con un'unica maldestra azione avevo insultato me, ferito qualcuno, disprezzato qualcun altro. Faccio finta che non sia mai accaduta ma la mia spietata trasparenza non mi lascia in pace. Fossi stata in una città di mare, sarei andata di fronte a lui a farmi schizzare, a farmi urlare contro, a farmi giudicare. E invece la mia punizione era vedere tutto nelle mie mani, sentire il peso della sufficienza e vedermi negato il diritto alla vendetta. Io mi sarei vendicata, avrei voluto. Ma tu mi avresti impedito di farmi del male per giustiziarmi.
La notte del ventisette novembre ho dormito solo quando ho infilato la mia guancia nella tua mano, sperando che tu riuscissi a sospendermi al punto da crollare. C'eri. Io no, ma tu sapevi dove andarmi a prendere.
Non sono più riuscita a togliermi quella x rossa stampata addosso, non c'è niente altro per cui mi condanni a tal punto: dopo la sera del ventisette novembre, mi hai preso con te, hai coperto quella x con la mano e mi hai accompagnato per tutte le strade della città fino a dimenticarne il nome.

Catemera, 07/01/2012 - 16:46

Ho attaccato la musica per cercare un ricordo. Che è l'unico modo che io abbia al momento per dire qualcosa, perché passato ne ho tanto, presente molto poco, futuro zero. Il finto tango mi mostra una fotografia in controluce davanti alla finestra del secondo piano e mezzo sulla strada più trafficata e calda di Firenze, quando stavo cominciando a illudermi di aver trovato la persona giusta e la mia ispirazione cercava di darle forma di musa guardandomi con quelli che presumevo fossero i suoi occhi. Avevo una sola bocca e non bastava. Aveva un solo corpo e non mi bastava. Aspettavo che le giornate portassero via il nostro scoprirsi e scoprirci, aspettavo che diffondessero quella tranquillità che deriva dal conoscere le risposte dell'altro, o anche solo immaginarle. Scendevo in mezzo alla gente per andare a spostare le macchine nel giorno di lavaggio strade e mi sentivo sana, anche se stanca e incompiuta. Facevo tanti giri per trovare posto e guardavo tutte le persone che incrociavano il mio sguardo. Ero tra gli altri e non me ne pentivo. Quel giorno caldo a casa dei suoi amici mi prese le mani e mi trascinò a darmi baci senza aspettare di essere solo, e sul terrazzo inumidito dall'estate la città buia illuminata forte mi sembrò qualcosa a cui potessi sperare di appartenere. C'era perfino la sua vecchia fiamma, forse ce n'era più di una ma mi sentivo sicura. Era una rivincita sulle mie insicurezze.
Tornammo a casa tardi, più tardi del solito, e la stanza aperta sul buio rumoroso della strada di notte ci sembrò piccolissima.

Catemera, 06/01/2012 - 14:39

la notte del concerto non avevo più patti con nessuno, non dovevo niente al mondo e dovevo tutto a te, non so se te l'ho dato, non se se te lo sei preso e basta, io ho controllato e mi sembra che nelle tasche delle giacche non sia rimasto niente, non è rimasto niente nella borsa che avevo quella sera, non è rimasta traccia del mio passaggio sulla porta che ha sentito il peso della nostra urgenza, non ha sentito niente nessuno anche se c'era il ragazzo accanto a noi che mi mangiava con gli occhi ed era ipnotizzato da come strusciavo il bacino su di te, avevo giurato di non fare niente ma nessuno aveva reclamato la mia fedeltà e nessuno l'ha mai più voluta, e allora perché avrei dovuto preoccuparmene? non c'è nulla che non andasse fatto a parte l'unico rimpianto della mia vita che appartiene più o meno agli stessi giorni, il rimpianto per cui ero così sporca che sono dovuta tornare pulita infrangendo la mia inutile fedeltà con te. ti ho consegnato la mia ultima fedeltà, che era tua, che era quella che davvero avevo calpestato con le mie cieche voglie, te l'ho ridata prima che fosse impossibile dartela, prima che si richiudesse su se stessa. se ne hai fatto qualcosa di diverso dal chiuderla a chiave non discuterò, non ci sarà altro scontro, non ho mantenuto con me le prove del patto, l'unico modo rimane trasmetterlo a voce, io posso farlo con te, forse potrò, forse potrei, forse non lo farò.

Catemera, 03/01/2012 - 16:01

Il giorno finale le pietre sarebbero state il mio inizio, e io il loro fondo. Avevo la pelle innaturalmente bianca, tanto da non sembrare luglio. Io che mi sono sempre scurita come se non fossi bionda, ero pallida escavata, e chiara per consunzione. Non che non fossi stata al sole, ma il nero si era scolorito, come per eccesso di lavaggi. E quel che era fuori, si rifletteva dentro; no, non il contrario.
Il giorno dopo la fine, anzi, preciso: come una postfazione, si trattava di saldare le bollette e disdire i contratti. Presi a guidare la tua macchina per farti godere il panorama, e mi sembrava di stare in un cartone animato di Bruno Bozzetto, sentivo che al mio passaggio la strada si richiudeva dietro, si arrotolava, si sistemava a mo' di liquirizia, perché io odio la liquirizia finta e al termine del viaggio non l'avrei mai srotolata per riassaporarla.
Sulle pietre aguzze che mi graffiavano le gambe e il culo ero semplicemente immobile, come in preda a un'enorme ferita. Come? Lo ero. Sentivo che ad ogni movimento avrei generato fitte di dolore ai punti, ai lembi di pelle, agli organi interni. Me ne stavo ferma per paura. Il panino migliore del mondo al prezzo più basso mai visto finì per farsi strada tra le macerie delle lacrime ingoiate. Tu mi guardavi, ma io non c'ero. L'acqua scintillava, ma io non la vedevo.  Eri lì con me, e non so se io ero lì con te.
Risalendo gli infiniti chilometri il sole incendiato aveva bisogno di acqua.

DSC_0169.jpg

Resti, 02/01/2012 - 13:31

L'atlante dei luoghi emotivi è quel libro abbandonato da qualche parte dentro di me, che richiede manutenzione per non finire in briciole. Gli basta poco, essere rispolverato ogni tanto: poi c'è questo muscolo del fuoco mentale che passa in rassegna i fatti e decide cosa comprendere al momento giusto, cosa lasciare da parte, come muoversi e quanto tempo attivarsi. Sempre attivo, sempre vigile, sempre potente. Ma oggi è spento, è come se guardassi davanti a me e non mettessi a fuoco con gli occhi. Ci sono delle caselle da riempire, delle domande a cui rispondere, dei passi da studiare, ma sembra attivo solo il pilota automatico, che impara le tabelline senza capirle, ripetendole a memoria.
Scorre immagini senza senso prese a caso dal mio passato, proponendomi un nesso, di solito, mentre oggi no: oggi aspetto ancora che si accenda il settore dell'analisi. Cerco di capire che avrà voluto dirmi con le passeggiate primaverili durante la merenda a scuola, che non erano passeggiate, ma non lo sapevo, e mi vedevo solo le galosce ai piedi insabbiarsi nei terreni incolti attorno alla scuola, che pomposamente venivano chiamati giardini, ma con l'erba così alta che ci si immergeva dentro. La maestra avrà pensato che ero una bambina problematica, mi ricordo di quando ci? mi? comunicò che se ne sarebbe andata via per un anno perché era incinta, e il tono era proprio quello che si usa con un bambino che si crede non possa capire, con qualcuno di fragile.
L'atlante dei luoghi emotivi ha un'immagine stampata che non si sbiadisce mai, di un bambino con gli occhi ridenti e intelligenti che avrei voluto fosse mio amico e potrei non incontrare mai più. L'atlante non mente, il muscolo del fuoco mentale qualche volta sì. Si è dimenticato di mostrarmi qualcosa, lo so, lo sento: raccolgo i nomi e me li porto a dormire.

Catemera, 29/12/2011 - 18:57

Diciotto e tredici, un momento del futuro, la musica mi circonda, devo ricordarmi di rifare i cd dei Placebo, che quello che ho fatto ormai in macchina salta perché è rovinato, Jackie mi guarda dal davanzale, strizza gli occhi, io le strizzo il cuore, mi viene sonno, forse è una reazione, forse spegne l'interruttore. Diciotto e quindici, il cuore batte nello stomaco, il tè si sta raffreddando, I can see for miles in your eyes, non era niente, solo i colori dei post-it che mi girano addosso in arcobaleno a rate, ho staccato una fetta di cervello per scrivere in automatico, ho le ginocchia ancora fredde ma il livido sulla gamba che si gonfia e tira, Daniele ce la farà come ho fatto io, oggi ancora non ho cantato, ma che dici, certo che hai cantato, e c'era il sole giusto, sereno, devoto, attrezzato alla notte, io mi preparo a esser cieca, a cercare le risposte, ad aspettare i sorrisi, un sorriso, me ne basta uno per mettermi a piangere, alle diciotto e diciannove si può fare solo questo.

Resti, 27/12/2011 - 17:20

Otto minuti per decidere di parlare, di fermare il nodo alla gola, di scomparire senza smettere di esistere.
Sette minuti per scegliere le parole, per guardare le mie dita e fermare lo scoppio che potrebbe aprire un nuovo capitolo.
Sei minuti sono già passati e non posso contare più velocemente anche se dentro qualcuno vorrebbe farlo.
Cinque minuti per fermare la corsa delle dita e quelle del cuore che pompa.
Quattro minuti non raccontano ancora niente di me e sembrano aver raggiunto quasi lo scopo.
Tre minuti dovrebbero essere sufficienti a ricordarmi il mio nome, e cosa avevo guadagnato con la fatica del dolore.
Due minuti mi restano allo scoccare del traguardo di una prima calma.
Un minuto, per dire che non è colpa di nessuno, è stato merito nostro, non cambierei nulla.

Catemera, 24/12/2011 - 22:58

Arrivai trafelata all'inizio del corridoio, solo per vedere la tua schiena dimenticarsi di me. Era la fine di febbraio e non c'era alcun freddo che ci rendesse piacevole l'attrito. Era per sempre e non trovavo più gli interruttori. Salendo le scale avevo trovato quella nebbia strana che l'ospedale faceva entrare a volte, quella nebbia che serviva a mimetizzarsi per non rischiare di incontrare volti noti, e invalidare tutto il lavoro dei medici.
Eri sempre stato tu quello contrario a questo genere di cose, dicevi che era contro natura e che l'essere umano non dovrebbe alterare poi così tanto lo stato mentale in cui nasce, che già ci pensa da solo con tutte le paranoie che è portato a farsi durante la vita.
Stavo per non salire. Ho parcheggiato poco lontano, poi al cancello di ingresso mi sono appoggiata alle sbarre e mi sono chiesta se avessi il diritto di interferire, solo perché in quanto parte offesa mi sentivo chiamata in causa. Non ero la ragione della tua scelta di cancellarmi, anzi, era solo un effetto collaterale. Nella tua visione distorta era un atteggiamento puramente egoistico, quello di cancellare i tuoi sbagli perché dimostravano che non avevi voluto accettare i miei consigli. Questione di orgoglio: io preferivo pensare che non volessi ricordare di avermi fatto del male, visto che io avrei continuato a ricordare tutto.
A un certo punto una macchina con dentro qualcuno di importante si avvicinò al cancello per entrare; ero così distratta che quando col telecomando lo fece aprire, per poco una delle due ante non mi prese in volto. Un po' smarrita ma ancora indecisa, entrai e mi avviai su verso il tuo reparto. Nella nebbia pensavo ancora di avere il tempo di decidere: alla fine delle scale avevo praticamente giurato a me stessa che ti avrei fermato, o che almeno mi sarei fatta vedere, visto che, come mi avevi raccontato prima di iniziare la procedura, ti avevano raccomandato di non fare alcun incontro nella prima mezz'ora, perché era la fascia di tempo critica in cui vedere volti noti era rischioso, e si correva il pericolo di sconvolgere la fase di creazione della memoria alternativa.
Ora so che non avresti dovuto dirmelo, anche perché in quella mezz'ora c'erano solo quei dieci secondi di rischio, in cui saresti stato accompagnato dalla camera di lavaggio a quella di attesa, protetta all'ingresso da due guardie, proprio per evitare ospiti inopportuni.
Avevo appena deciso di volerci provare, ma ovviamente non conoscevo questi particolari. Immaginavo fosse tutto semplice, che il personale medico si fidasse e fosse moderatamente attento. Ma dal fondo del corridoio mi resi conto che avevo poco tempo.
Raccolsi le energie e cominciai a correre, mentre tu imboccavi la curva che ti avrebbe portato alla stanza di attesa: quando arrivai alla stessa curva, fu un istante capire che non avevo più possibilità di convincerti, e che tutta la mia voglia non mi avrebbe ridato indietro i nostri giorni.
Mi fermai, ansimante, con la schiena a riposare al muro, e le due guardie con dolcezza mi sorrisero.

Resti, 23/12/2011 - 15:58

Quel grido. Quel grido mi copre tutta, dalla testa ai piedi. Smetto di pensarci e lui vuole pressarmi, vuole aprirmi, vuole diventare me. Non sono io la fonte, ma vuole diventare parte di me. Vuole farmi male. E io che cerco in tutti i modi di non farmene. Ho congelato tutte le parti di me accuratamente, per evitare che accadesse, per evitare che mi facessi anche inavvertitamente del male. Non ci sono riuscita. Quel grido è dietro di me e potrebbe raggiungermi e potrebbe diventare me.
Non voglio dolore, ma mi hanno sempre detto che se mi sporgo troppo, è una questione fisica, la testa pesa di più. Per cambiare dovrei scegliere definitivamente di immaginare. Immaginare le storie che mi rendono felice, che mi emozionano, quelle che viste altrove vorrei fossero mie. E però se ci provo, da me non escono. Io sono quello nella foto, vedi: il secondo da sinistra, in piedi. Mi si vede appena, ti devi concentrare. Sono dietro, vedi, dietro, e dietro voglio stare. Non ricordo più quando ho deciso di stare dietro. Ma mi sono stufata.

Catemera, 19/12/2011 - 11:05

A furia di guardare cose in lingua originale, certi concetti cominciano a sembrare molto più semplici da esprimere in lingua inglese. Overreacting mi sembra una parola bellissima. Odio l'inglese ma devo ammettere che ha una capacità di sintesi a volte sconosciuta alla lingua italiana, che però ha il pregio delle sfumature.
A volte nella testa comincio frasi in inglese e mi blocco solo perché non immagino a chi dovrei indirizzarle, formulate così. No matter what, devo finire la frase che ho in testa. Forse a volte mi sembra più naturale dirle in inglese perché parlare in un'altra lingua mi dà la sensazione di condividere un segreto con qualcuno, così come una volta dissi al telefono Je vais parler avec toi per non far capire a chi mi stava davanti che l'argomento in questione sarebbe stato lui. I need to talk to you but don't worry. Parlare in modi diversi dal solito e in una lingua che non tutti  possono capire è come creare un'intimità con qualcuno, ci vuole un attimo, dentro o fuori, con me o con gli altri. This has always been the way to get closer to someone. But, since I fail, probabilmente non serve a molto. Perché per quanto mi manchi il contatto fisico, l'attrito, il calore condiviso con un altro corpo, l'aggancio mentale, la battuta repentina, occhi negli occhi, ci siamo capiti, don't say a wordit's what I miss most of all.E dal momento che non posso reagire a un vuoto di cui sono responsabile, I just can overreact, parlando in inglese per far capire solo a me.

Catemera, 14/12/2011 - 20:29

Pagine