Parole (in ordine)

Sono le chiavi di un’abitazione della quale non resta più pietra…
[Anna Achmatova]

- La signora è di Acquaviva?

Ancora non mi abituo. Non mi abituo al fatto che mi si chiami signora. Non è vanità, è che mi sento infantile.
Ma la gente interpreta i miei anelli come segni certi del mio status, e io me lo dimentico.
Il nome Acquaviva per me ora ha solo questo ricordo attaccato: una sosta in autogrill prima di far fondere il motore.
Il benzinaio per fortuna mi aveva fatto notare la puzza di olio bruciato consigliandomi giustamente di cambiare l’olio.
Olio e acqua. L’uno dentro, l’altra fuori.
Mi ero fermata in stazione con gli occhi gonfi di pianto, quanto lo possono essere dopo uno scroscio a dirotto, direttamente da dentro, senza passar per gli occhi. Ero quasi stupita che fossero gli occhi, a essere gonfi, e non qualcos’altro. Quanto lo possono essere dopo un pianto a dirotto, nel bel mezzo dell’estate, col caldo che ti asciuga le lacrime prima che riescano a bagnarti i vestiti.
Gli occhi rossi e gonfi impressionano sempre, e certo avevano turbato quell’uomo.
Io, non avevo capito il senso della domanda.
Nel mio vuoto lui ripeté con cortesia:

- La signora è di queste parti?
- Ah! Ho capito.
- Mi sembrava un volto familiare, non so, magari vive da queste parti.
- No, decisamente no.
- Mi scusi, non volevo infastidirla. Somiglia molto a una ragazza che vedo spesso ad Acquaviva.
- Non mi ha dato fastidio – dissi sorridendo.

La signora è di acquaviva. Ne sono fatta, sì.
E di acqua viva dentro di me ce n’era tanta quel giorno, ma ho dovuto buttarla fuori, e purtroppo non ce l’ha fatta: non si è salvata, è morta.
L’altra Acquaviva, quella con la maiuscola, mi faceva rabbia. Pur non conoscendola, ero furiosa per il fatto di doverla associare a qualcosa di doloroso. Di dover associare un nome così bello e musicale a cose così penose.
Quel giorno venivo direttamente da Taranto o quasi Taranto.
Dovevo tornare solo a Napoli, era poca cosa.
Eppure, ebbi la tentazione di farlo, ma passando da Firenze. Sì, non il contrario. Di arrivare a Napoli risalendo l’Adriatico e ridiscendendo dall’Appennino. Sarebbe stato il mio viaggio privato. Ero partita così presto che ne avrei avuto decisamente tutto il tempo. La macchina e l’autostrada mi rendono sempre follemente coraggiosa.
Come in tutti i viaggi di distacco, riaccendendo la radio ci trovai Sting. La solita beffa crudele.
Alle sei di mattina, l’alba su Taranto mi aveva inseguito. Avevo faticato molto a distinguere le sfumature di colore, con gli occhi appannati.
Con tutta quell’acqua viva, avrei voluto spegnerla.

Resti, 13/12/2011 - 20:23

Oggi vorrei spegnermi e riaccendermi all'inizio di un miglioramento. E invece no, rimango qua ad aspettarti perché penso abbiamo cose da dirci e vorrei sentirle tutte. Resto in piedi, muta a cercare di identificare il nome di ogni mio desiderio, cercando di riconoscerli tutti per riuscire a presentarteli. Ricordi quando eravamo tristi e seduti in fondo al letto, ce ne stavamo abbracciati senza guardarci in faccia, aspettando l'affievolirsi di un dolore? Non era così male in fondo.
Ascoltavo il sangue sotto la pelle, il battito indeciso e il respiro colmo d'ansia: mi sembrava tutto un pulsare, a causa del silenzio. Fissavo la mia mano all'incavo del tuo gomito senza mai diminuire la pressione, tu lo facevi con la mano sul mio collo. C'era quella specie di tregua passeggera, fatta di un giorno forse due in cui la complicità vinceva sul disagio.
C'era infine la consistenza setosa del tuo pullover che mi dava la sensazione volessi sfuggirmi, e mi aggrappavo di più, fino a farti male, fino a farti fuggire davvero. E il fatto è, non pensavo fosse simbolico.

Catemera, 13/12/2011 - 15:08

C'è stato un momento in cui non sapevo più chi ero, e valeva per tutti, eccetto uno. Quell'uno non ero io, sicché cercavo di specchiarmi il più possibile per leggere cosa stavo diventando. Un semplice gesto non bastava, non mi bastava, avevo bisogno di sentirlo descritto da chi ne conosceva il significato. Avevo qualcuno che faceva il mio specchio e voleva avvicinarsi a me fino a entrare nei pori del viso. Io lo aspettavo, lo accoglievo, lo usavo e mi facevo usare per poco tempo, per poche gioie, per molti tormenti. Ma quando andava via non vedevo più niente.
Se avessi visto i suoi occhi percorrere le mie ginocchia, studiare le mie mani, odorare ogni pelo e scrutare i miei occhi.
Se avessi avuto il tempo di srotolarmi su un tavolo, a guisa di mercanzia da scegliere, pronta a finir pasto veloce consumato senza piacere.
Se potessi ora appoggiarmi allo schienale di una sedia con una stanchezza automatica, per sentire che in questo esatto istante lui ha di nuovo bisogno di me.
Sentirei di tornare a godere del mio cervello, e potrei perderlo di nuovo. Ma il giorno dell'addio lui tenne l'anello e non restituì le risposte.

Resti, 12/12/2011 - 17:49

Quando guardavo la mezza luna che pretendevo di chiamare di profilo non stavo ragionando in tre dimensioni. La luna di profilo si nasconde oltre che dimezzarsi. La luna di profilo è una fetta che non racconta nulla, è un richiamo che comincia appena ad esporsi, per poi riscivolare tra le nuvole di una serata addormentata tra i ronzii.
La prima metà della luna mi consigliò erroneamente di darle questo nome, di profilo, perché pensavo di essere già a buon punto. Ricordo di aver detto 'se non sai qual è il profilo migliore è come non averlo' e pensavo a metà luna.
Restai ferma in attesa della seconda metà. Chiedevo speranze, volevo assaggiare i segreti e mescolarli coi miei, e dimenticarne l'origine. Sapevo di poterla affrontare, gestire, riscattare. Ma la sua velocità di rotazione era maggiore della mia: appena si sentiva rincorsa, scoperta, denudata, andava avanti di un grado, e io indietro di due.
La terza metà della luna è vivace, coraggiosa, battagliera e solare. Per questo, ne sono sicura, non sarà mai visibile: fa concorrenza al sole, ne porta addosso le tracce. Ha voglia di mostrarsi, ma ha bisogno della prima metà per farlo, e quindi la rincorre in un eterno affanno, che rende impossibile accorgersi della sua presenza.
L'ultima metà vorrebbe essere chiamata quarto, in tutti i sensi, per tutti gli occhi: ma è troppo complice della prima per averne diritto. L'ultima metà, sospetto, è quella che ha preso tutte le mie metà e le ha condannate a divenire quarti, con i loro spigoli, il loro equilibrio instabile, i loro lati taglienti. E la mia luna ha finito per essere uguale a tutte.

Catemera, 08/12/2011 - 22:58

È come quando qualcosa si rompe, un lenzuolo si strappa, un piatto urta nel lavandino perché scivola tra le mani e rimane sbeccato. Anche le certezze possono subire incidenti, e rimanere da quel momento in poi storpie o non del tutto sane. In questo modo sono meno salde. Continui a usare il piatto sbeccato, la tazza a cui è caduto il manico, la ciotola che si sta crepando e prima o poi si spaccherà in due. Non ti accorgi che le rotture si sommano e rendono instabile tutto il mondo attorno.
Anche dalle persone non ho avuto tempo di riprendermi. C'è chi mi ha sbriciolato la sicurezza nelle mie scelte, accusandomi di scegliere troppo, e prevaricare, chi ha volutamente minato la bellezza che avevo finito per vedere dentro e fuori di me. Non sono più stata in grado di riprendermi, non ho ricostruito quei tasselli e ho navigato sulla zattera dei rottami.

Ieri notte cercavo di capire perché, stesso letto, stessi cuscini, stesso materasso, la mia camera mi sembrasse così poco accogliente, il letto così respingente e freddo. Poi ho capito che non volevo vedermi addormentare nello specchio di fronte, quello dell'armadio. Non volevo correre il rischio di perdere la ragione a fissare i miei occhi ciechi nel buio. Non guardo mai gli specchi di notte, mi spaventa la mia immaginazione, mi ha fatto troppi scherzi durante l'infanzia.
Ho cercato un modo familiare per addormentarmi, mi sono guardata le dita, le mie proverbiali dita, ora trascurate e rivestite di pelle così secca da essere irriconoscibile. Volevo che le mie mani mi parlassero di me, e lo facevano nel modo peggiore: rivelandomi quanto mi stia abbandonando da sola. Mi sono addormentata, come spesso accade, pensando a qualcosa da scrivere, qualcosa che lì per lì sono sempre troppo pigra per correre ad appuntarmi, ingenuamente convinta che lo ricorderò al risveglio, qualcosa che ovviamente stamattina avevo perso, avevo rabbiosamente dimenticato, e ho invocato a lungo. Mi sono addormentata dicendomi che sono in grado di far andare le cose meglio, e ho deciso che volevo sognare. Ma nel sogno mi allontanavo da casa fino al punto da dimenticare volontariamente la strada del ritorno.

Catemera, 06/12/2011 - 22:06

La tua felicità non è la mia, ma un po' della mia infelicità potrebbe essere la tua. Non siamo mai stati fratelli e non saremo mai altro ma pensavo tu avessi un obbligo nei miei confronti. Leggendo le tue parole, guardando i tuoi occhi e ascoltando la tua bocca non vedo traccia di questo. Esposta su un muro senza protezioni, sono alla mercè di coltelli, frecce, occhiate e anche sputi. Nessuno dei quali potrebbe cambiare il bisogno di essere normale, alla fine dei giorni in cui denuncio la mia totale estraneità ad ogni norma.
Perché sembri aver dimenticato tutto? Non mi sono ancora spenta del tutto. Ma per le strade, in mezzo alla gente, ho ancora la percezione ovattata dei sogni, raccolgo frammenti di conversazioni, fotogrammi di sguardi, movimenti come coreografie, e non riesco a fare a meno di chiedermi se tutto continua a esistere anche in mia assenza, o se quel che vedo non sia prodotto malato della mia mente, irreale come cercare di parlare agli attori di un sogno.

Non ti rendi conto che ho meno di te perché, semplicemente, non ho te?

Catemera, 04/12/2011 - 18:26

Le parole quando escono fuori in realtà scendono, scendono fuori dalla bocca, si sporcano, vacillano e cadono a terra. Le raccolgo e te le consegno ma la maggior parte delle volte mi sbaglio, inciampo, le rompo e alla fine te le lascio, ma sono sbagliate. In quel momento vorrei essere trasparente, e smettere di essere guardata. L'unico momento in cui vorrei essere femmina, perché con lo scudo femminile posso difendermi. Perché con lo scudo femminile ho il diritto di essere debole, invece di indossare quello maschile e attaccare, e faticare finché non ho finito, finché non sono certa di essere al sicuro. The more I get close to what I want, the more I run away. Ma non è tirarsi indietro. È rifiuto di qualcosa che non posso avere nel modo in cui voglio, nella misura in cui avrei bisogno. Al crescere del bisogno di contatto, del bisogno di affetto, di persone, sviluppo un comportamento respingente. La voce canta e le parole si attorcigliano su se stesse.
Una volta tra un trasloco e l'altro ho trovato in un libro della parole piccolissime, ma così piccole che quasi stavano cascando in terra. Le ho prese in mano, le ho srotolate, e mentre le toccavo ho sentito che erano mie, e che non potevo abbandonarle in quella casa. Poi srotolandole ancora ho sentito che erano ancora un po' sue e che era rimasto con me, e che almeno una di quelle cinque lettere era ancora nostra, anche se la carta si stava distruggendo. E ho sperato che anche i silenzi di cinque lettere avessero un persempre.

Catemera, 03/12/2011 - 22:55

Non ho mai perso la maledetta abitudine di appuntare mentalmente tutto, di elencarmi ogni giorno cosa devo fare indipendentemente dalla priorità, dalla gravità, dall'importanza. E così le mie liste scritte e verbali diventano enormi e vengono abbandonate. E la relatività scompone tutti gli ordini di cose: una cosa dimenticata, ma di priorità inferiore, finisce per farmi sentire in colpa, mentre una cosa urgente e importante trascurata anche a lungo comincia a far parte dei doveri che finirò per abbandonare, mio malgrado, con un senso della responsabilità marcio e stravolto.
Ma la categoria peggiore sono i doveri periodici. I doveri periodici e quelli intimi, personali, naturali, sani. Ricordati di lavarti, ricordati di nutrirti, ricordati di proteggerti chiudendo la porta la sera. Quelli che dovrei scrivere su un fottuto pezzo di carta ogni giorno e se anche li cancellassi, la mattina dopo si riscriverebbero magicamente da soli, ricordandomi che sono sempre perennemente periodicamente inadempiente.

Più ci rimugino più mi sembra diventare lentamente un meccanismo metaforico. Mi immagino doveri verso le persone, verso le cose, verso me stessa, mi immagino sentimenti e affetti che non basta affrontare una volta, che richiedono impegno continuo, che ci vorrebbero sempre vigili e sempre al cento per cento delle nostre risorse, mi vedo di fronte a delle prove da superare sempre, come se non fossero mai compiute, come se ogni traguardo difficilmente raggiunto non fosse altro che uno step di qualcosa senza una fase finale, serena, tranquilla. Risalire dal baratro doveva solo abituarmi a compiere gli sforzi necessari alla sopravvivenza, non autorizzarmi a concedermi una sosta. Posso forse vivere di quella spinta ma prima o poi la gravità mi pretende giù attraverso l'acqua e senza un continuo vitale slancio verso l'alto, aver affrontato il baratro non sarà servito a nulla. Nessuno ha diritto a vivere di rendita.

Catemera, 01/12/2011 - 15:43

Conforme. Quando mia madre mi aspettava voleva un maschio. Quando aspettava mio fratello due anni dopo voleva una femmina. Obbediente alle aspettative, middlesex, capatosta, disobbediente a tutto il resto, ambivalente, probabilmente bipolare. Ho assecondato i desideri e i bisogni noti e anche quelli inespressi di chi mi amava concependomi e poi aspettandomi sapeva che mi avrebbe amato comunque. Ho cercato di dare forma a me guardando l'unica forma che avevo a disposizione, e poi ho cominciato a scavare dentro per capire cosa c'era di predisposto e organizzato e quali margini di modifica avevo tra le mani.

Non conforme. Dopo, non ho mai amato conformarmi pur mentre ne soffrivo le conseguenze. Mi sembrava di confondermi invece che amalgamarmi. Non amavo le feste, i festeggiamenti, la discoteca, le uscite in gruppo eppure desideravo allo spasimo assaggiare il senso di appartenenza, il mescolamento; immagino però che l'unica sua forza fosse quella di tener tutto insieme come un collante, senza che alcuno dei legami potesse diventare più intenso e profondo, perché avrebbe sbilanciato il gruppo e generato una gravità propria troppo intensa. Mi accorsi in ritardo che gli altri compagni di classe di pomeriggio si incontravano, si cercavano, facevano gite o viaggi insieme, si tenevano in contatto d'estate, e non perché non fossi una persona interessante, ma perché non ero io a farlo con loro. Mi accorsi troppo tardi anche di piacere agli altri, quando ormai gli altri erano andati via e il nostro quotidiano era roba passata. Come, non te ne sei resa conto? Ci piacevi, a noi maschi della classe, tu piacevi tanto a tanti di noi. Eppure chissà che effetto respingente devo aver fatto, sempre così pronta a puntualizzare la mia differenza, sempre così sicura di non voler accettare le convenzioni solo perché erano quelle che mi avrebbero tenuto dentro al gruppo.

Conforme. Il mio primo ragazzo fu scrutato con ansia, atteso, sondato e esplorato dalle mie compagne quasi più che da me. In quel momento era solo qualcosa che mi andava di fare, mentre per loro era la dimostrazione che arrivavo ad una tappa della mia vita in modo più o meno analogo al loro, e quindi sembravo più strana e alienata nelle apparenze, di quanto non fossi in realtà. Certo, probabilmente avrei potuto migliorare in seguito, suppongo che la bruttezza del ragazzo fosse compensata, per loro, dal fatto che aveva otto anni più di me e quindi per questo meritavo rispetto. Suppongo che questo facesse aumentare i punti sulla mia scheda personale. Ebbi con lui una prima volta banale, non particolarmente intensa, ma non quella che raccontai a loro, un paio di mesi prima di quella vera. Non furono davvero bugie, solo omissioni. Tutta la preparazione alla giornata era stata reale, ma arrivati al punto c'erano stati degli intoppi e avevamo rimandato. Avevo così tanta voglia di non sentirmi più la loro ansia addosso che semplicemente conclusi frettolosamente il racconto, come se non avessi più voglia di scendere nei particolari. A loro sembrò bastare.

Non conforme. La mia prima volta, quella vera, venne poco dopo. Non so se dall'esterno sembrai assumere atteggiamenti diversi, non so se cambiai al punto da permettere loro di cogliere qualcosa. Certo è che, innamorata o no, appagata o no, grande o piccola, venne fuori di più la mia natura goduriosa, aperta e libera. Priva dell'ultimo inutile tabù del pudore e della pudicizia femminili e meridionali, pur senza ostentare cominciai a rispondere alle loro domande, e a srotolare le risposte senza filtro. Peccato: peccato nel senso di 'purtroppo, non l'avessi fatto' e nel senso proprio del termine, quello che pur senza identificare esattamente perché; mi appioppava una non ben identificata colpa, legata alla mia trasparenza, cosa a cui nessuno era abituato all'epoca. E pochi lo sono ora. Un giorno, a seguito di un'infelice battuta di un professore (cos'hai oggi che sembri tutta eccitata) tutta la fila delle persone con cui ritenevo di poter parlare sghignazzarono al suon di 'certo, si eccita facilmente lei' bisbigliato da una di loro. Non me ne resi conto finché non me lo raccontarono altri. Il mio ragazzo era brutto e quindi la capacità di eccitarmi non dipendeva da lui, ma dalla mia 'colpa'. Ero di nuovo me stessa, apparentemente dentro, in realtà mai del tutto per desiderio di puntualizzazione delle mie idee.

Materiale sano e magari anche funzionante, ma obsoleto o che non rispetta tutte le caratteristiche e gli standard richiesti dalle leggi del momento. Ho tenuto gli occhi aperti, con tutte le lacrime dentro, e continuo ad aspettare il momento che almeno una di loro abbassi lo sguardo per il disagio, e non il contrario.

Resti, 28/11/2011 - 20:22

Ho perso il conto dei tempi sospesi. Quando cominci a baciare qualcuno e nel giro di qualche istante è passata mezz'ora di baci e ti aggrappi alle sue ginocchia e però sarebbe ora di ricominciare a baciarlo. La sensazione più comune che mi rimane nel quotidiano è l'accumularsi di sensazioni immaginate. Immaginare di conficcare le unghie in un jeans, immaginare il rumore che fa il jeans, immaginare il fastidio delle unghie che strusciano, immaginare la differenza tra caldo e freddo quando finalmente toccano la pelle, i peli delle gambe, il nodo delle ginocchia. Ricostruire in testa le venature degli occhi, di un paio di occhi qualsiasi, sentire battere il cuore spaurito quando ad ogni istante le pupille tremolanti si voltano a sinistra a destra a sinistra e ancora a destra con la stessa fragilità con cui un uccello finito per sbaglio in casa accetta di farsi prendere tra le mani e prima di morire d'infarto si fida e si fa liberare. I tempi sospesi dei pomeriggi passati a chiacchierare o ad ascoltare musica rendendosi conto del trascorrere delle cose solo perché si fa buio e le luci cominciano ad accendersi. Odio l'inverno che si avvicina anche se per ora mi promette di rimanere un po' più caldo, odio il freddo che dovrò fronteggiare perché l'unico motivo per me per riuscire a superare il freddo è ucciderlo insieme al caldo di qualcuno. Odio la mia camera da letto fredda perché non basto io a riscaldarla, e le lenzuola cedono alla mia temperatura solo a notte fonda, loro cedono ma io non mi arrendo.

Catemera, 27/11/2011 - 17:09

Quella volta che anche se si stavano deteriorando i rapporti, Mattia mi venne a prendere alla stazione per andare al lavoro insieme perché una donna si era buttata sui binari del treno e non potevo proseguire per l'ufficio. E ci mettemmo a cantare perché nonostante tutto c'era una sintonia generazionale così bella tra noi che ci si capiva al volo. Luigi è geloso. Mattia stravede per te, non te ne rendi conto? Sei la persona perfetta con cui lavorare e saresti perfetta anche come amica. E allora ci mettiamo a cantare in macchina e cambia cd, cambia l'altro, mette Moulin Rouge e finiamo per cantare a squarciagola come due adolescenti emozionandoci con gli occhi lucidi sulla voce di Ewan nel punto più bello di Your song. I momenti magici devono durare poco, di quello non ne abbiamo più parlato, non ci siamo più parlati, spero lo ricordi con lo stesso piacere che ho io.

Quella volta poco dopo il trasloco da un ufficio all'altro che ebbi la sensazione che Gabriele fosse sul punto di perdere il controllo e fare qualcosa, mai più accaduto, soprattutto quando poi l'ho cercato io e non sono la persona che riempie un tuo vuoto, non voglio esserlo.

Quella volta sulla porta di casa che Marianna e Walter se ne andarono per tornare a casa e sul terrazzo feci la pagliaccia come sempre chiedendole un bacio e lei finalmente mi baciò forte le labbra per poi fuggire, ma tornò indietro a darmene un altro ripetendo 'no, aspetta, ancora' scegliendo di non far diventare Altro il nostro Altro.

Quella volta che il professore di educazione artistica mi portò un disegno da parte di un alunno di un'altra classe che non si è mai fatto vivo.

Quella volta che Antonio appena patentato venne a trovarmi fino a casa l'estate prima dell'università e c'era anche suo cugino ma io non me lo ricordo perché volevo troppo bene a lui, e ora l'ho perso.

Resti, 25/11/2011 - 13:01

Non si amarono più.
Non ebbero una scusa qualsiasi per passare del tempo insieme, solo per gridare a tutti che insieme, stavano davvero bene.
Per ogni strada, non si guardarono intorno aspettandosi di essere guardati come due innamorati speciali.
Quella sera di un mese quasi estivo non andarono insieme al concerto blues, la prima sera del festival.
Non aspettarono dubbiosi le prime canzoni per sentire se valeva la pena rimanere. Non si stupirono della cantante, dei suoi piedi scalzi dopo i primi tentativi col tacco alto. Non si guardarono complici dopo averle fissato il culo a punta infiocchettato nell'unico vestito femminile della sua vita. Non si capirono al volo come sempre, dopo aver immaginato entrambi che solo nei concerti lei accettava di vestirsi a festa, al contrario di tutte le prove a piedi nudi in jeans.
Al primo blues riconoscibile non poterono emozionarsi e tremarsi accanto. Alla seconda canzone, sconosciuta, non ebbero modo di fremersi le mani l'uno dentro l'altra, mentre la scoprivano.
Verso le note finali del concerto non si diedero calore per bilanciare i brividi dell'umidità... e quelli dell'ultima chitarra.
Non fu quella calda voce americana né l'armonica ruffianamente straziante a stordirli e farli sentire una cosa sola.
Nel pub dove andavano sempre, altre gambe si avvinghiarono sotto al loro tavolo, noncuranti della stanchezza della cameriera, solo per la voglia di non staccarsi mai, davanti all'ultima birra che non furono loro a bere.
Non mescolarono le canzoni appena ascoltate all'ultimo programma radiofonico notturno, che passava a basso volume durante la chiusura del pub. Le loro mani, non erano vicine al punto da fondere guancia con guancia. I loro pensieri, non erano fusi con il borbottio dei passanti, i loro desideri non furono rumorosi tutta la sera sotto ogni singolo sguardo giudice.
Sulle sponde del fiume, non si tolsero le giacche per poi finire per scambiarsele, e arrotolarcisi dentro, nel tentativo di riscaldare tutto il buio.
Sulla strada di ritorno, l'ultimo portone vuoto fu rubato da un'altra coppia, e non furono loro a insudiciarsi le giacche per scambiarsi un paio di baci rubati alla notte, da rivendere al giorno.
Non furono loro, gli amanti che i miei occhi  di odio e resa invidiarono quella notte. Stretti, nel mio cortile, a ribaltare il mio mondo.

Resti, 24/11/2011 - 23:30

vorrei sapere se ricordi la data del nostro primo incontro
e quella dell’ultimo

vorrei sapere che ne hai fatto dell’anello

vorrei sapere se ricordi quel pomeriggio sul letto, a cucchiaio in cui io ti provocai un’erezione mio malgrado
e tu i brividi a me soffiandomi colpevolmente dietro l’orecchio

vorrei sapere se hai mai raccontato tutto a qualcuno

mi fermo a immaginare cosa provi ascoltando la musica ora che non lo facciamo insieme
e poi mi fermo e basta perché non riesco a sentirlo

vorrei sapere, ancora, se ricordi la consistenza delle mie nocche dentro le tue
e il calore unto del mio collo sotto le tue dita

mi piacerebbe sapere se il tuo profumo senza profumi è cambiato

vorrei sapere se ancora ti fanno male quelle liti notturne troppo lunghe di ritorno dal campeggio
e se hai pensato davvero ch’io avessi perso un’occasione sulla strada per Isernia

niente più segreti e soprattutto niente più menzogne a me stessa

vorrei sapere se ti mancherebbe ancora il fiato a rileggere gli spazi che avevamo lasciato insieme su quel timido foglio bianco
e se ti staccherebbero ancora il cuore i miei sguardi lucidi silenziosi e impossibili nello specchietto retrovisore

vorrei farti domande che ho bisogno di sentir gridare dalla mia voce

vorrei sapere se chi ti ama ha paura perché io che ne ho avuta, di amore sono morta

Resti, 24/11/2011 - 22:46

un appunto senza senso scritto solo per dimenticare, dimenticare le targhe delle auto imparate per pochi minuti o le curve dove puoi non rallentare
un appunto per non ricordare e potersi in futuro stupire, scaricare banalità da togliere di dosso, cose di cui stupisce il solo fatto che ancora stupiscano
quel bianco che avrei giurato di non apprezzare mai di un posto troppo esteso da far contenere agli occhi

poi di notte riemergono voci e volti di persone che restano come caldo o freddo persistenti, i “ce l’ho fatta” oppure “ho gettato la spugna” che, detti con fermezza, non vogliono più smorzarsi

ma la gente non vuole passare mai e forse dovrebbe, la gente che segna e scompare a cui potrei offrire un posto

e se ascolto vengono briciole, di questa gente, ad aver voglia, pure più che briciole e da principio ricordo tutto, da principio sono solo io, con la mia memoria inutile
poi, mentre dimentico, riappare la mia unica voglia che contiene un conto unico valido per tutti: un’ultima scena che cambi il senso della storia, un rischio, un cuore in allarme, una vittoria, occhi bagnati in cerca di fuga dal tuo sguardo, occhi stanchi ma senza voglia di riposare, la risata che non trattieni e crea contagio e infine, l’ultimo sorriso della giornata.

Resti, 24/11/2011 - 22:44

Volevo dirti che ti amo.
Ovunque tu sia, chiunque tu sia.

Resti, 24/11/2011 - 22:12

C’è uno scarto, nella mia vita, ma non ne voglio parlare.
Vorrei parlare di Venezia e della sua acqua su cui è irragionevole pensare di dire qualcosa. Magari anche di altro.
Ma non mi va di parlare.

Quindi trascrivo.
Perché si gode a colori ma quando si soffre non ci sono colori, in giro.

29/07/2005

11.40
[...] Io spero che vada tutto come fa più male a me. [...] Mi sto sfogliando. Avrei dovuto fare una foto al panorama per vedere come sarebbe cambiato al mio ritorno. Non solo l’ho dimenticato, ma non l’ho nemmeno guardato.
Ad ogni modo Nisida è triste, e il cielo è cupo. E logicamente il paradosso vuole che in Veneto ci sia il sole.
Avrei preferito un notturno, se avessi potuto, perché di notte i contrasti tra i cieli scompaiono un poco. Di giorno sono costretta a vedere che cambia tutto.
Fuorigrotta e i suoi palazzi fatiscenti mi scoraggiano a scrivere. I colori, anche dove esistono, sono ingoiati da una bolla di marciume. [...] L’unica cosa che rallegra un po’ Fuorigrotta sono i graffiti, ma durano poco.
Nell’altro vagone, quattro ragazzotte nigeriane oscillano i loro grassi culi e fanno brillare i loro bianchi denti. Perché so che sono nigeriane? Lo hanno detto a uno che le importunava.
[...]
Il nostro piccolo spazio si è ridotto e io peggioro apposta la mia grafia.
[...]
Un uomo che mi era indifferente ha incrociato il mio sguardo quando ho alzato gli occhi per scrutare il vagone, e mi ha sfoderato due occhi trasparenti che cambiano tutto il paesaggio del suo viso.
I nostri quattro piedi che si incrociano disegnano simmetrie di jeans, che sarebbero ancora più spudorate se io stessi a gambe stravaccate com’è mio solito (ora non posso perché devo scrivere).
Eppure no, non è un diario, e certo non mi diverte che lo si possa pensare. Ci sono pure tutti questi gatti. Dovrò sembrare un’adolescente isterica.
No, cari, adolescente non lo sono più.
Vicino, hai un profumo che mi ricorda profumi passati. Gente che non rivedrò quindi ti assaporerò finché non scendi.
A Mergellina cominciamo a ragionare. A Mergellina succede sempre qualcosa, peccato che io lo capisca sempre dopo.

E allora finisco morettianamente per guardare solo scarpe, vedo e guardo solo scarpe, ma mi vien male perché non sono brava come il maestro a capire le persone dalle scarpe.
E vedo sandali e scarpe vecchie e consunte. Scarpe di lavoratori e scarpe troppo femminili per alzare l’occhio sulla proprietaria, scarpe che mi dicono che non andrei mai d’accordo con chi le indossa.
Le mie espadrillas rosa fuori taglia sono lontane anni luce.
[...]

Sì, scrivere è meglio, scrivere è una buona cosa se non hai altro in mano, scrivere mi seda abbastanza da prendersi le lacrime per sé, quelle che mi chiamavano appena sono salita sul treno.
Volti che non c’entrano nulla e volti che non mi ricordano nessuno, che è abbastanza raro. Volti che non si vogliono incrociare con me.

13.41
Ottmar Liebert.
Questa musica forse è una delle poche solo mie. Questo è un bene. Perché posso stare male solo per me stessa e di me stessa.
Banalità. Vorrei fare una foto dal nome banalità, il giornale abbandonato sul tavolo e qualcun’altro che legge.
Le foto vengono male perché non le vedo prima in testa. Non le ho provate, ma verrebbero male.
Prosciugarmi, vorrei.
Ma in tantissimo tempo, senza che ci si renda conto. Sapendo che le mie parole non sono forti come le mie braccia e il mio cervello non così lucido come i miei occhi.
Avevo un patto da infrangere con il silenzio, e invece l’ho onorato.

Resti, 24/11/2011 - 22:08

vorrei far parte di una foto rubata
vorrei essere l’estranea affascinante nel sogno di qualcuno
girarmi allo specchio e vedere la persona che desidero e non me
vorrei che le giornate di sole non finissero mai e il tempo si spezzasse all’infinito in frazioni di piacere da assaporare senza soste
ascoltami respirare qualche volta, c’è una melodia dentro il suono del corpo, e canta a bassa voce e sorride con gli occhi e non si stanca mai
vorrei essere l’ideale sbagliato di qualcuno, il colpo di fulmine che ti prende e non dimentichi più perché non hai mai avuto il coraggio di assecondarlo
vorrei nutrirmi semplicemente bevendo volti ed espressioni e leggendo il rosso sul volto di un piacere proibito
lumaca e lucertola insaziabile e perversione notturna a giorni alterni
e più che simbiosi un parassitismo dichiarato reciproco e cannibale tra cervello e istinto
sono giochi crudeli dell’angoscia dichiarata di vivere
un voluttuoso rimpianto
un noioso felice ricordo
un piacere non dichiarato e trattenuto sotto le coperte per pudore
un sapore organico troppo facile da ricordare ma vagamente sconcio da dichiarare

perdono per le cattiverie che verranno
perdono per il ricordo che già ho di me stessa
è facile chiudere gli occhi ed è doloroso riaprirli per troppa luce

e ancora, vorrei essere l’igenua gioia di chi vede un giocattolo abbandonato e ha paura e desiderio di farlo proprio
vorrei essere il primo rossore che colora la pelle in un giorno di aprile, il primo estatico colore he prende possesso di una pelle appassita
gli occhi di una vecchia che sorride lentamente senza pensarci e allunga una mano come saluto
e poi vorrei essere tutte le cose che l’uomo ancora non ha capito

Resti, 24/11/2011 - 21:58

Dividemmo in parti eguali la distanza
perché era l'ultima cosa che avevamo entrambi
l'ultima cosa rimasta multiplo di due
le altre cose sopravvissute erano solo numeri primi

Resti, 13/01/2010 - 18:02

E a chi serve tutta questa forza, tutta questa energia.
Per chi coltivo questa bellezza che tra poco sfiorirà, con chi me la guardo.
Sono bello, e mi sento bello. Sono invitante. Sono attraente e lo dimostra il fatto che difficilmente chi mi conosce rimane indifferente, quindi non è superbia. A volte vorrei che il fascino fosse meno, per far in modo che qualcuno poi rimanesse con me, anche se non c'è niente di più che un'amicizia. Le amicizie non durano.
Ho questa bellezza. Questo fascino. Questa grinta, quest'energia.
Questa capacità di fare cose, di riemergere dalle mie ceneri. Sono spigliato e non banale, do piacere agli altri con la mia presenza, almeno finché dura, almeno finché duro, prima di marcire come ogni volta accade, prima che gli altri scoprano che sono umano e li deluderò.
So amare in un modo unico, per quel che mi hanno detto: il mio sesso è perfetto, e il sesso regalato alle mie amanti è decisamente al di là della media. Perché amo il piacere e amo condividerlo, è il mio scopo e non lo farei se non mi riuscisse bene. Non l'ho fatto le volte che sapevo non mi sarebbe riuscito bene.
Ho tutto pronto, la musica, i libri, i film, per regalarli a qualcuno, per dividerne il piacere con qualcuno, perché a me solo, piacere, non ne danno.
Mi sembra tutto inutile.
Sono ormai solo in una città che non desideravo e che ora non voglio mi appartenga, non voglio mi penetri, non accetto diventi la mia.
Ho pensato a te e a quando eri la mia musa.
A quanto condividevamo.
A quando cantavamo a due voci Something stupid.
Non so che mi è preso, ma ti ho mandato un messaggio con su scritto
And then I go and spoil it all
By saying something stupid like

solo perché spero che non resisterai, continuerai a cantare, e sarai costretta a rispondermi con un messaggio che mi dica I love you.

Resti, 30/08/2009 - 16:52

si viaggia tanto ma non si arriva mai, stavolta era Taranto
immaginavo di essere mio nonno che lì ci ha costruito anni e anni e anni, e faceva il pendolare e tornava venerdì sera
immaginavo di essere lui
immaginavo di immaginare i suoi pensieri mentre faceva quelle stesse strade o forse lui andava da Salerno e non da Bari chi può dirlo
ma avrà pensato mille volte le cose che ora penso io
le cose che ora sento io
le strade deserte e con questo caldo pazzesco chissà con quale macchina faceva questi viaggi lunghi
ho pensato che potesse aver sentito anche lui quella sensazione di pelle d’oca a percorrere il circummarepiccolo e sentire la somiglianza con la strada che fa il giro attorno al Lago di Patria
con lo stesso abbandono e la stessa terra arida e non curata ma forse quando lui era lì non era già tutto dimenticato dalla gente com’è ora

la provincia di Taranto mi ha rattristato perché sentivo suonare una nota lontana che non si spegneva mai e questa melodia era una specie di malinconia o pianto di leggero dolore che somiglia a qualcosa che si sente a Napoli, una specie di ultrasuono appena percepito come quello dei richiami per gli animali, una presenza vibrante costante irripetibile inarrestabile che nella provincia di Bari non avevo mai sentito
c’è una specie di filo di rassegnazione che a Bari non c’è, a Bari sembra che si possa fare tutto, basta volerlo, si raccoglie la monnezza, basta volerlo, si rifanno le strade, basta volerlo, si organizza la vita, basta volerlo, avete dimostrato che si può essere meno votati all’abbandono anche se siete al sud, mentre a Taranto sembra di essere in mezzo ai rassegnati napoletani speriamo di riuscire a tirare innanzi

e dopo aver visto e assaggiato tante sagre al nord ti ritrovi in una sagra al sud tu che al sud le sagre non le avevi mai girate ti domandi perché pur essendo in puglia nelle sagre la voce e l’anima della gente scelga le canzoni napoletane
ché lo sapevi già che la canzone napoletana non è assolutamente solo napoletana e soprattutto esiste tanto in puglia e sicilia
però è diverso, stavolta è diverso
sei costretto a ricordarti di essere del sud e però se te lo dovessero chiedere non sapresti spiegare cos’è
eppure voglio fortissimamente non dimenticare cos’è
e per la prima volta invece di pensare che sono solo canzoni napoletane e le conoscono tutti
pure se così è
penso che la voce che viene fuori in quell’occasione è quello che quel popolo in quel momento vuole dire di sé
anche se è banale, forse proprio perché è banale
è l’immagine di sé a cui non rinuncia se deve mostrarsi fuori, agli altri
è quello che ama far sapere di sé, sceglie di dare voce alla parta malinconica, alla parte passionale e sentimentale, al cuore enorme, anche se forse non è niente vero

giro a Castellaneta con la tentazione che devo reprimere di invicolarmi e perdermi nelle strade troppo strette perfino per due persone e invece seguo il percorso che mi porta tra gli stand a mangiare e bere e urtare la gente
arrivo alla piazza dove il trio col mandolino suona, suona e non canta, perché è la gente che canta, ma senza urla, senza entusiasmi violenti zumpappà zumpappà
salgo sulle lunghe scale di una chiesa stanca che è sdraiata di fianco e sul suo fianco mi siedo
mi siedo in alto troppo in alto perché giù i tre musicisti possano vedermi
ma io posso vedere il sorriso felice di uno dei tre e i suoi occhi lucidi quando attacca una nuova canzone e al ritornello quelli al primo gradino cantano con lui aspettando il suo cenno
mi volto per non guardarlo e cerco di capire cosa sento in fondo, davvero in fondo cercando di liberarmi delle sovrastrutture, cercando di togliere tutti i significati aggiunti e le associazioni successive che hanno imbastardito ogni ricordo che hanno velato di amarezza anche una cosa così semplice come una canzone napoletana

c’erano giorni felici? sì che c’erano
c’erano questi momenti brevissimi in cui si accettava la tregua del cantare
durava quel che durava, durava quel che bastava a mettere insieme qualche giro di accordi a volte nemmeno quello
eppure c’erano questi momenti, anche se limitati e ristretti, in cui si era una punta di un iceberg che si sarebbe sciolto presto
una punta ipotetica di qualcosa di bello e sano che non è mai venuto a galla e si è sciolto sott’acqua
evidentemente c’erano questi giorni in cui si riusciva a mettere insieme una manciata di tentativi, e su tutte c’era la chitarra delle canzoni napoletane con i fogli delle parole raccolti nella cartellina e la chitarra da accordare all’ultimo momento
c’erano d’accordo, ma erano brevi, allora forse meglio questi momenti di canzone più lunghi, anche se non sono canzoni cantate da noi da me da lui e lei per qualche momento in sintonia, anzi, più che in sintonia, a scambiarsi un cenno d’intesa per la tonalità, e quella voce che scorre e non strozzata
infine non importa tanto se c’erano, mentre mi si velano gli occhi e quand’anche qualcuno li incontrasse con lo sguardo, non capirebbe mai che non è il trio ai piedi delle scale che mi commuove ma va bene così

father, father, we don’t need to escalate, eppure, fa’ che stavolta sia diverso

a far risalire la bilancia:
gli nghiummeridd, gli involtini di trippa, le bombette, la terra dei vulcani alla catanese che solo Corewar sa cosa intendo, la strada tra Manduria e Avetrana con la masseria che non ho fotografato, Torre Colimena
e la sua acqua caraibica, le pinete sul mare, la casa con le tre donne strabiche e i due gemelli strabici, il vecchio che ci fa una ramanzina per il parcheggio ma poi ci sorride carezzandoci una spalla nfa niend
va male, va male per tanti versi ma sono versi solo nostri

ché la sudditudine è un’origine non ben definita (sud)
è una condanna se non si riesce a prenderla bene (sudditanza)
e infine un pensiero fisso per chi non ritorna (solitudine)

Resti, 04/08/2008 - 18:59

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